Caro don Giulio Scuvera, ti scrivo

Caro Giulio,
sono stato al tuo funerale, a Butera.
Salendo dalla piazza, per la stretta via che porta alla Chiesa Madre, sui balconi hanno steso delle lenzuola bianche ricamate. E’ il saluto di Butera al suo parroco. Capisco che tra poco passerai da quella strada.
C’è tanta gente. Arriva a riempire la piazzetta dell’ingresso laterale, non riesco a vedere dall’altra parte, ma sento una ragazza dire che non si può passare neanche da là. Io devo entrare, con Giusi, mano nella mano, ci infiliamo tra la folla.
Il giorno prima era arrivata una notizia strana, la notizia della tua morte. Sì, sapevo che da tempo stavi combattendo dentro di te, una battaglia difficile. Alla fine dunque il male ti aveva battuto. E già perché tra le notizie del tuo star male e i nostri fugaci incontri in Piazza Garibaldi, io credo che per tre, quattro volte, l’avessi spuntata tu. Non saprei, saranno quasi dieci anni che di tanto in tanto la notizia: «Giulio sta malissimo» arrivava qua a Piazza Armerina. Ma poi ti incontravo e sembrava che stessi bene. I capelli imbiancati, il tuo solito bellissimo sorriso, i tuoi schernimenti, il nostro scherzare su di noi. Ormai sempre di fretta, le tue visite in Diocesi trovavano il punto nella necessità della messa del pomeriggio, a Butera. Come se fosse possibile per me accettare che il grande comunicatore, il pedagogo più profondo e di spessore che abbia mai calcato gli austeri corridoi del Liceo Ginnasio, la speranza più fervida della chiesa piazzese degli ultimi trent’anni, avesse il limite di celebrare una messa, ad un orario, in una piccola città della Provincia di Caltanissetta, della Diocesi di Piazza Armerina. Quel tuo sottrarti al mio, al nostro, «Giulio resta, andiamo a cena insieme, organizziamo qualcosa!», quella tua fuga precipitosa per dir messa, da anni mi riusciva incomprensibile.
Ero stato a Butera, nella tua chiesa, la Chiesa Madre, subito dopo la tua nomina a Parroco. Si chiudevano gli anni straordinari della tua presenza a Enna, dopo gli anni straordinari della tua presenza a Piazza: sembrava, a me, che i vescovi della nostra Diocesi fossero impazziti. Da Piazza a Enna, noi avevamo vissuto, la tua promozione a parroco, come uno scippo. Capivamo già allora che il tuo allontanamento da Santo Stefano era per noi la fine di un privilegio. Lo intuivamo più che capirlo. Ma eri a Enna, chiamato ad essere parroco, il compimento di un obbligatorio periodo di comando, si sarebbe detto in termini militari. Pensavamo sarebbe durato poco. Perché un uomo dotato di tanto carisma, così capace di prevenire i tempi, tanto incline al dialogo coi giovani, era un dono della Provvidenza per la Chiesa; era impossibile che la Chiesa di quegli anni, quella di Papa Giovanni Paolo II, non si accorgesse di te e non ti usasse per un grande compito, più alto di quello di una sola città o di una piccola Diocesi siciliana. Insomma eravamo certi che, prima o poi, quel privilegio, che ci era stato tolto, ritornasse a noi per una via più grande, forse da Roma.
Vedere che da Enna eri finito a Butera, sì nella parrocchia di San Tommaso, nella tua città natale, vicino alla tua mamma, colpita dalla tragedia di Fabrizio, ma pur sempre a Butera, sembrava un altro passo indietro.
Quella chiesa, che strana impressione mi fece la sera che venni a salutarti nella tua nuova sede. Ricordo i muri bagnati, gli intonaci scrostati, le tele danneggiate. I lampadari con le lampadine fulminate, i fili elettrici di un impianto obsoleto e gli spazi grandi, la navata, la sagrestia, la polvere, il senso di abbandono! «C’è lavoro da fare» ti dissi. «Non manca il da fare – rispondesti – non solo per la chiesa, ma per i fedeli».
C’è davvero tanta gente al tuo funerale, vedo amici venuti da Enna, da Piazza, da Villarosa, sono pochissimi i visi che riconosco e mi fa impressione che, tanti visi che io non conosco, invece tu li conoscevi, uno ad uno.
C’è caldo, ovunque si vedono ventagli sventolare, di tanto in tanto dal portone laterale arriva un ventata d’aria. Il vescovo, mons. Pennisi, è all’omelia. Parla di te, elenca i tuoi incarichi nella Curia, mi fa uno strano effetto: «… Parroco della Parrocchia di San Tommaso apostolo in Butera, Vicario Episcopale per il coordinamento della Pastorale diocesana, ….. Canonico della Basilica Cattedrale, Delegato per la Pastorale giovanile, membro del Collegio dei consultori, assistente spirituale presso le associazioni …..» l’elenco è lungo, sembra impossibile che tu facessi tutte queste cose e che ogni giorno celebrassi messa in Parrocchia, dedicassi il tuo tempo alla comunità, curassi i tuoi ragazzi.
La chiesa è uno specchio di perfezione. E’ tutta restaurata: è bellissima. Il mio ricordo appartiene ad un’altra chiesa, quella prima che arrivasse don Giulio. Scherzo! Ma anche tu sapevi che la chiesa è importante ….
Il funerale è giunto al termine, e adesso tocca ai tuoi fedeli esprimere il loro dolore: uno dopo l’altro, prendono la parola, don Emiliano. La sua concretezza, nel ripercorrere il tempo condiviso, la dignità della sua emozione; è anche lui uno di noi, allievo tuo, si sentono nelle sue parole le tue certezze, la tua fermezza, l’ironia, la fiducia, la fede.
Sono volti che io non ho mai conosciuto, ma che ti conoscevano bene, quelli che parlano di te. Gli applausi fragorosi dei presenti scandiscono la condivisione, sono il grande abbraccio per te.
Sei li, seduto tra noi ad ascoltare, forse un po’ imbarazzato. Non vorresti che si parlasse di te, ma proprio oggi non possiamo farne a meno. Una giovane donna esordisce dicendo una straordinaria verità: «Ognuno di noi aveva la sensazione di avere con lui un rapporto privilegiato». Verissimo, mille, diecimila rapporti privilegiati, ognuno era davvero importante, per te, e tu eri davvero importante per noi. Era proprio questo il tuo carisma.
Peppino Margiotta, azzarda. «Avete mai sentito da Giulio la stessa omelia? Ripetere anche solo una volta la stessa cosa, nello svolgersi degli anni qui in parrocchia?». Sorrido, la risposta è scontata, qualcuno non resiste alla tentazione. Si leva un coro di «No!». Sempre nuovo, sempre vero, sempre autentico: è stato così per quarantacinque anni di sacerdozio. Prete? Sì. Scomodo? Forse! Vero? Sempre. Peppino apre uno spiraglio sul tuo impegno nella società: «Una generazione di persone impegnate nel sociale e nella politica sono state plasmate dall’azione educativa di Giulio. Cinque, sei sindaci ed ex sindaci, una generazione di pubblici amministratori ha messo in pratica i suoi insegnamenti, la sua propensione verso una società più giusta, con il suo stesso spirito di servizio».
«Si dice che il Signore dà e il Signore toglie. Noi lo ringraziamo per quello che ci ha dato e anche per quello che togliendo ci ha lasciato». Un’altra grande verità. Perché è proprio questo il senso dell’averti conosciuto. Il privilegio dei doni che ci hai lasciato.
E alla fine ho capito perché Dio ha voluto Don Lorenzo Milani a Barbiana e don Giulio Scuvera a Butera. Perché il capolavoro della tua vita di pastore mi è stato chiaro di colpo. Dovevo attendere la tua morte per capire il senso grande della tua missione.
A volte le cose più grandi sono proprio le più piccole.

Maurizio Prestifilippo