La zona interna, il Libero Consorzio e l’omogeneità culturale

dialetti sicilianiLeggo, come sempre con piacere ed attenzione, gli scritti di Silvano Privitera (nelle pagine di questo portale), egli è fine analista e ottima penna, questa volta, però, non sono assolutamente in accordo con la sua analisi, anzi, devo necessariamente considerarla un’analisi che parte da presupposti storici limitati a fasi estremamente recenti della storia siciliana e, comunque, in gran parte ascrivibili alle incapacità politiche della classe dirigente locale.
Ci si dice che il territorio non abbia omogeneità culturale, si procede poi ad una limpida analisi geomorfologica che, mi si consenta, se definisce attentamente le caratteristiche orografiche di quello che “fu” il territorio della Provincia Regionale di Enna, non ne definisce in maniera altrettanto univoca la appartenenza o meno a comunità culturalmente distinte.
Mi può star bene sentir dire che oggi Enna non riesce più a garantire il suo “effetto città” verso i paesi finitimi ma altrettanto non si può dire per Piazza che, invece, questo effetto lo mantiene nonostante la crisi. Mi si potrà dire che Barrafranca ed ancor più Pietraperzia gravitano sul nisseno, ma che l’area sia caratterizzata da profonde diversità culturali non lo si può dire assolutamente.
In ausilio ci viene intanto una prova eccellente dell’esistenza di una comunità: la lingua. Il De Saussure chiariva che la lingua è “la comunità dei parlanti”, con essa si modifica e di essa vive. Ebbene se andiamo a vedere la aggiornatissima mappa dei dialetti italiani ci accorgiamo subito che, dal punto di vista territoriale, la famiglia dialettale più estesa è quella definita dell’ennese. Esso è un dialetto estremamente arcaico, con fenomeni di tale antichità che consentono addirittura di definire lo stesso come diretto discendente della lingua sicula e non, come qualcuno vorrebbe, come una semplice lingua neolatina. Nel dialetto ennese la K è ancora non palatalizzata, la U non è stata sottoposta ad alcuna iotacizzazione e, se pensiamo che tali fenomeni si mostrarono già nel latino all’epoca delle prime testimonianze scritte della stessa lingua, ci si rende conto di come antica sia l’esistenza di questa vasta comunità di parlanti.
Ma qual è l’area dell’ennese? La stessa, e si può osservare nello stralcio della carta geolingustica, si estende dalla costa tirrenica, in corrispondenza dei centri alesini giù verso Sud sino alle colline che dividono la piana di Gela dall’interno. Da Est si va dalla alta valle del Simeto sino a comprendere quasi interamente l’area madonita e confinare con la lunga valle dell’Imera meridionale.
Ovviamente il fatto che questo dialetto sia definito “ennese” non sta a dire che Enna ne è la madre linguistica e culturale, sarebbe questa affermazione un falso storico con motivi “nazionalisti”, ma certamente l’esistenza di un’unica famiglia linguistica, passata indenne attraverso la acculturazione greca (ad Agira ad esempio abbiamo la prova provata della utilizzazione del greco dorico come lingua parlata almeno sino a tutta la Repubblica Romana), la lunga presenza arabo-berbera (così prepotentemente testimoniata dalla toponomastica), il ritorno delle lingue romanze e la colonizzazione gallo occitanica con la creazione delle importantissime isole linguistiche ancora oggi così preziose, questa esistenza, dicevamo, dimostra la persistenza di una koinè, di una comunità che nei secoli è stata fatta di relazioni, scambi, conflitti, transumanza, religiosità. Addirittura quest’area fu più volte definita come il quarto Valle di Sicilia e ufficialmente riconosciuta come il “Vallo di Castrjanni”.
Se le Madonie, che con Castrogiovanni hanno mantenuto una fortissima interrelazione nonostante la presenza dei Conti di Geraci, i Ventimiglia, se l’alesino ha sempre rappresentato il naturale sbocco a mare del grano ennese, se la transumanza si è sempre attestata sulle linee nord sud che dai Nebrodi scendevano alle vallate del centro isola, se, ancora, gli artisti di questi centri, fossero essi stranieri come i Gagini, il Borremans o il Laurana o locali come il Salerno, immaginavano questa asta area come una sorta di “regione” entro la quale sviluppare le complesse loro vite, questa è “comunità culturale”.
Oggi questa regione è la Sicula Sicilia, una Sicilia ben diversa da quella delle coste, dal berbero vallone nisseno, delle aspre montagne dei Sicani, dalle cuspidi peloritana ed iblea. Solo a partire dalla riforma alla quale venne “costretto” Ferdinando di Borbone, con il beneplacito degli inglesi, quest’area venne spezzettata, allontanata dalle sue naturali sfere. Caltanissetta rubò la piazza prima a Pietraperzia poi alla stessa Castrogiovanni, Troina perse importanza a tutto vantaggio dell’area messinese, e forse solo Piazza e Nicosia almeno sino al 1926 mantennero il loro importante ruolo di città. Queste vicende sono la storia di ieri e di oggi, ma non sono il cuore della nostra cultura, non sono il portato della Sicula Sicilia che ad un occhio attento ancora si rivela quando per le piazze passa una statua di santo, un “muzzuni”, un fiero portatore di alloro.
Se mai questa pessima riforma potrà avere un senso per la Sicilia io non posso che auspicare che questo senso lo abbia nel recupero di identità misconosciute, abiurate, vendute alle luminose coste, spacciate come vecchi ed inutili retaggi ed invece anima profonda di un Mediterraneo millenario che vive ancora in noi.

Giuseppe Maria Amato