Cataldo Salerno: cosa insegna il flop del referendum di Gela

In molti pensano di rappresentare il sentire popolare, salvo verifica

Consorzio Gela CataniaUn episodio non è di per sé indicativo, ma certo deve fare riflettere l’esito disastroso del referendum di Gela, dove soltanto poco più di un terzo dei votanti si è recato a votare per uscire dalla provincia di Caltanissetta ed aderire al costituendo consorzio del Calatino, dove peraltro Gela avrebbe acquisito automaticamente il ruolo di capoluogo in virtù della maggiore popolazione.
Se un’aspirazione, che era sempre apparsa profondamente radicata nel comune sentire dei cittadini gelesi, non è riuscita a coinvolgere neppure la maggioranza semplice del popolo nella più popolare delle manifestazioni, quale è quella referendaria, vuol dire che qualcosa non funziona nella macchina istituzionale: fatto ancora più rilevante, ove si consideri tra l’altro che l’opinione opposta non ha praticamente avuto alcuna tribuna.
Ciò che non funziona sembra potersi individuare nella visione negativa che negli ultimi decenni ci è stata largamente propinata a proposito delle rappresentanze. Ci è stato spiegato, con sempre maggiore insistenza e sistematicità mediatica, che le decisioni importanti possono essere discusse dagli eletti nelle assemblee rappresentative (diciamo, da coloro che siano stati “deputati” a decidere), ma devono essere direttamente adottate dal popolo senza intermediazioni. Qualcuno ha anche scomodato l’etimologia della parola “democrazia” per ricordarci che sarebbe democratico soltanto quel sistema che affida al popolo le scelte decisive, tralasciando di considerare non soltanto i modelli originari greci, ma soprattutto l’elaborazione filosofico-giuridica millenaria che ha portato alla costruzione dei sistemi rappresentativi come modelli avanzati di democrazia, in ragione della maggiore capacità, che tali sistemi hanno, di dare vita a quella discussione ragionata e a quella mediazione politica o tecnica che solo in organi collegiali ristretti e protetti dalle contingenze del momento può esprimersi.
Insomma, nonostante tutto quello che ci è stato raccontato dai detrattori della politica ragionata, c’è una grande differenza tra il popolo che si esprime nelle piazze, nella rete e ai telefoni dei sondaggisti, e il popolo che si esprime negli organi rappresentativi e nelle libere votazioni. Nel primo caso, prevale il dato emozionale, nel secondo il dato elaborato. Nel primo caso c’è la scelta grezza, nel secondo quella meditata. Nel primo caso c’è stata la liberazione di Barabba, nel secondo ci sarebbe stata almeno una speranza per Gesù Cristo se a decidere fosse stato un consiglio di idonei rappresentanti (come sono i moderni tribunali) invece che la cosiddetta democrazia diretta.
Il caso di Gela, pur nella limitatezza di un solo caso, ci insegna che forse non era vero che tutti i gelesi volessero andare con la provincia di Catania (ammesso che fosse questa la questione, posto che la provincia di Catania è stata cancellata dall’istituzione della città metropolitana di Catania, e quindi l’obiettivo era inesistente), altrimenti si sarebbero recati in massa a votare. Forse. Sicuramente un consiglio comunale lasciato più libero di decidere avrebbe potuto elaborare una proposta più ragionata e ragionevole, anziché bruciare tutto in un improvvisato referendum estivo e doversi, ora, dopo il risultato, arrampicare sugli specchi di complesse questioni legali sulla validità o meno del quorum. Il dato certo è uno: il comitato “popolare” ha perso. Di popolare – come in tante iniziative in Italia – aveva soltanto un aggettivo.
Adesso che la corazzata Gela è andata a sbattere contro il muro del suo stesso popolo, è bene che nelle altre navi più piccole venga lasciato ai legittimi rappresentanti tutto il tempo necessarie per discutere, con la serenità indispensabile, prima di formulare proposte da sottoporre alla valutazione dei rispettivi equipaggi.

Cataldo Salerno