Ad Enna il gregge c’è, mancano i pastori

Il gregge c’è, mancano i pastori
di Massimo Greco

pecore_Non passa giorno senza chiedersi perché non funziona più niente, dalla sanità alla scuola, dalla pubblica amministrazione alla politica, dai sindacati ai corpi intermedi. Nel sistema sociale contemporaneo si avverte sempre più il peso di una patologia strutturale che impedisce ogni disperato tentativo di ripresa. La dimostrazione plastica si ha esasperando la metafora calcistica, secondo la quale si assiste ad una partita quotidiana in cui i giocatori risultano posizionati in campo in modo disordinato e tutt’altro che conformemente ai rispettivi ruoli. Il difensore gioca a fare il centroavanti, il libero fa il portiere, la punta fa il terzino e l’aspetto più inquietante è che il “racchetta palle” si trova sempre più spesso a fare l’allenatore della squadra. In sostanza c’è un serio problema alla guida della società.

Nel passato, alla formazione dell’identità collettiva e delle regole fondamentali della convivenza hanno sempre concorso figure tipiche, come lo sciamano o il capo guerriero, che hanno trasformato le pulsioni popolari in visioni della realtà e dell’ordine sociale e, allo stesso tempo, attraverso l’organizzazione militare hanno garantito la sicurezza dagli attacchi esterni. Oggi, nel corpo sociale questa funzione intellettuale sembra essersi spenta. Il problema più grave è che noi stiamo vivendo la fase finale di questo ventennio orribile che ha distrutto i soggetti politici, sociali e civili nel nostro Paese. E questa è la carenza più grossa: la carenza di fiducia, di coesione sociale, di affidabilità, di credibilità e di prospettiva. E poiché la crisi dell’Italia, così come quella di gran parte dell’Occidente, è una crisi dell’intelligenza sia individuale che collettiva, una corretta analisi del fenomeno non può che indurre le migliori energie ad individuare formule per ri-animare, in fretta, tale vitale funzione sociale, rinunciando ad ogni forma di cooptazione della classe dirigente. Basterebbe riprendere alcune riflessioni nietzschiane sullo spirito gregario per ricordare che senza pastori un popolo non va da nessuna parte. Anche l’antica visione greca della polis ci racconta che una città ha bisogno del governo dei migliori e che la democrazia non è il regime della mediocrità in cui tutte le personalità originali sono soffocate e ostracizzate. Una élite è sempre necessaria a una Nazione, farne a meno significherebbe cedere alle suggestioni della massa che pensa unicamente fino a dopo-domani, esposta all’influenza del momento. La vera élite è quella che si dimostra capace, in un dato momento storico, di interpretare la comunità del destino. Ma così non è guardando il nostro Paese: non abbiamo classe dirigente adeguata ad evitare il pericolo del baratro ed a gestire l’instabilità, e molti addirittura ritengono che esse non esista affatto. Tra le principali fenomenologie della lunga transizione italiana c’è infatti la crisi della società di mezzo.

La lotta che domina l’epoca attuale è quella del soggetto contro la comunità: un individualismo egoista che mira al riconoscimento dei propri desideri come diritti, a scapito di quella civiltà fondata su un concetto di civismo che spinse Socrate ad accettare la condanna a morte pur considerandola ingiusta. I peggiori vizi sono infatti endemici e riguardano anche la mitica società civile, depositaria a sua volta di difetti che vengono scaricati sulle classi politiche, a cominciare dalla mancanza di senso dello Stato. Se viene meno la fiducia del cittadino nei propri delegati, al di là dei profili di interessi individuali e categoriali che influenzano (negativamente) i meccanismi di formazione del consenso, e se le Istituzioni abdicano al proprio ruolo, si crea inevitabilmente un alibi o una scusante per venire meno alla doverosità dei comportamenti, espressione di quel patto.

Queste fibrillazioni, ovviamente, diventano vere turbolenze in quei territori come la Sicilia dove l’Italia è meno Italia. La medesima sensazione è stata recentemente avvertita dal politologo americano Sidney Tarrow – ritornato in Sicilia dopo trenta anni – per il quale “I siciliani sono ospitali e generosi come me li ricordavo ma il bene pubblico sembra ancora un concetto molto elusivo, mentre tutti sono alla ricerca del massimo vantaggio individuale in una società sempre più affollata e caotica. Tutto questo non è la conseguenza di un qualche difetto caratteriale innato, ma di uno Stato che ha fatto poco per produrre beni collettivi mentre distribuisce risorse a vantaggio dei privati a fini di consenso”.