Alla ricerca dell’identità di sinistra perduta del Pd

“Il partito ha abbandonato i suoi tradizionali riferimenti sociali a favore dell’adozione delle peggiori pratiche trasformistiche”. Leggo nell’articolo “Viaggio nel Pd – Calabria” comparso sul Corriere della Sera del 4 gennaio che questo è il motivo per il quale un intero circolo dei Giovani democratici della sezione Valarioti di Cosenza ha deciso di lasciare il Pd. Non è un caso isolato, quello dei giovani democratici cosentini che lasciano il Pd perché ritengono che questo partito abbia subito una sorta di mutazione genetica. Mutazione genetica che a molti sembra irreversibile mentre ci sono altri che sperano che possa essere corretta facendo riacquistare al Pd l’identità di partito di sinistra o di centrosinistra. Per Marco Revelli, storico ed ordinario di Scienza della Politica presso l’Università del Piemonte Orientale, “non è possibile definire di sinistra il Pd, dopo il drammatico esperimento renziano, con le politiche di questi 1000 giorni dal Jobs Act alla buona scuola, fino all’attacco frontale alla Costituzione” (la Repubblica del 2 gennaio). Revelli vede nell’abbraccio tra Matteo Renzi e Sergio Marchionne il simbolo della mutazione genetica del Pd, che molti ormai identificano con l’establishment. Che il Pd venga identificato con l’establishment lo sospetta anche Pierluigi Bersani: “La gente ci considera insieme ai più forti” (la Repubblica del 2 gennaio). Perché la sinistra in Italia, ma non solo in Italia, è così cambiata da essere percepita come establishment diventando bersaglio principale dell’ondata di sentimenti avversi alla politica e della diffusa e profonda avversione all’élite? La spiegazione che ne danno Marco Revelli e Massimo D’Alema, che sono su posizioni diverse e distanti, è sorprendentemente la stessa: nel passaggio dal ’900 al nuovo secolo, la sinistra ha ceduto ad una visone neoliberista ed ha sottovalutato gli effetti devastanti della globalizzazione sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici, che costituiscono la base sociale delle formazioni politiche di sinistra, e dei ceti medi. Nell’epoca della globalizzazione la sinistra ha accolto l’idea che il welfare socialdemocratico fosse un peso da alleggerire e ha trascurato, se non del tutto abbandonato, l’impegno per una più equa distribuzione della ricchezza contro le disuguaglianze, che invece crescevano a dismisura. E’ stato un grave errore che, come sostiene Massimo D’Alema, “è il punto di partenza da cui la sinistra deve riprendere le mosse e non può che essere, necessariamente, la presa d’atto onesta di quest’errore” (Italianieuropei n. 5/6 del 2016). C’è da chiedersi se il Pd ha la voglia di fare quello che chiede di fare D’Alema. Nel caso in cui, come è probabile, il Pd non lo faccia, potrebbe farlo quell’arcipelago di forze di sinistra di modeste dimensioni a sinistra del Pd? Allo stato attuale delle cose non sembra che ce la possano fare né l’opposizione interna al Pd né quei minuscoli partitini e piccoli movimenti ala sinistra del Pd. Chi in Italia voglia fare un tentativo del genere non può non trarre spunto da quello che hanno fatto Podemos in Spagna, Bernie Sanders negli Usa e Jeremy Corbin in Inghilterra e Syriza in Grecia

Silvano Privitera