Enna. “Monumentale”. La città e l’arte

Chi l’avrebbe detto? Complice l’amplificazione dei social, ecco l’arte ancora una volta al centro di veementi polemiche in città. Colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del giovane team di Mutazioni che ha inaugurato “Monumentale”, la sua terza istallazione, al Belvedere. Dalla prima, classica domanda, del “che mi rappresenta sta cosa” si è passati al giudizio dispregiativo sull’opera e sui materiali usati, per arrivare al doppio clou di una levata di scudi spropositata contro la presunta offesa di luoghi e panorami da un lato, di una cittadinanza “abusata” dall’altro. Tutto ciò in mezzo a un rimbalzare di parole pesanti e accuse, passatismi e anacronistiche nostalgie, a volte acidità astiose malamente camuffate e “megliodimenessuno” declinati in tutte le varianti. Per finire si aggiunga un q.b. di sospetto (mai, se fosse il caso, denunce chiare e concrete) e un tot di logiche di schieramento (dalla politica a banalissimi “se piace a te che mi stai antipatico non piace a me”). Ovviamente, nel quadro, c’è anche chi genuinamente cerca di capire, chi si emoziona e gode, e chi, legittimamente, ha capito ma non gradisce. Tutto normale.

“Monumentale” è un’installazione urbana effimera. Non le si può chiedere la vocazione del capolavoro eterno. Non “rappresenta”. Certamente. E non cerca il bello classicamente inteso. Come da più di un secolo l’arte contemporanea – ed è storia, non opinione – è un pensiero che chiama altro pensiero, è interazione e dialogo. “Monumentale” è innanzitutto una scritta scura su giallo ottenuta componendo cassette di frutta. Un’installazione verbo/visiva sul filo della polisemia ironica e autoironica. Monumentale la città? Ma allora perché lo si dimentica, accettandone lo scempio? Monumentale l’installazione? Ma è così prosaica nei materiali d’uso e precaria nel tempo! Una scritta che gioca dunque con la città, con se stessa, con la mescolanza dei linguaggi, compreso quello pubblicitario, nel momento in cui si offre alla percezione da lontano come uno striscione, un programma, un “ci sono” o… una mano che saluta. Ironico e ludico, il suo presentarsi come invitante gioco infantile, costruzione ingigantita di mattoncini, pronta a essere scomposta e ricomposta in mille forme, pronta a fare scivolare altrove sulle sue ruote gialle tutte quelle allegre cassette di plastica. E davvero sembra impossibile che ci sia ancora bisogno di ricordare che da più di un secolo – da quando un certo Duchamp espose con la sua firma un orinatoio – qualsiasi materiale ha dignità d’arte nel gesto dell’artista che lo utilizza. O come sia prassi consolidata in qualsiasi contesto artistico, nell’urbanistica e perfino nell’arredamento spicciolo, mescolare senza scandalo ma anzi con esiti proficui classico e contemporaneo. Nessuna profanazione di sacralità al Belvedere, se linguaggi distanti interagiscono nella ridefinizione provvisoria e tutta da scoprire di una porzione di spazio. Da un lato, in un’inedita intimità/riparo, l’asemicità lineare della scritta al contrario, scherza con la seria plasticità barocca del Ratto. Dall’altro lato, la moltiplicazione delle panchine e l’effetto spalliera amplificano il godimento del paesaggio, assolutizzandolo in chiave contemplativa.

Obiettano che sia un muro. Ma é sollevato da terra, con assai evidente, anche per effetto delle ruote, l’idea della mobilità. In realtà é una quinta leggera, che la texture a fessure delle cassette anima – al camminarci accanto – in un’impressione visiva di movimento che a tratti mima il digitale. Semitrasparente di giorno, illuminata dall’interno e perciò particolarmente suggestiva la sera, calda nella nebbia. Ci toglie il panorama, dicono. In realtà invece paradossalmente lo valorizza. “Interrompendolo” per un tratto, in realtà lo esalta. Ne richiama alla coscienza il desiderio e l’importanza, sottraendolo all’ invisibilità sostanziale che nasce dall’abitudine. Basta fare due passi e il panorama é là. Nessuno ce l’ha rubato. Chi poi preferisse vederlo senza interruzioni non ha che da sedersi su una delle tante nuove “panchine” sulle ruote… D’altra parte l’idea di “muro” è un archetipo, che osmoticamente include l’oltre, abbastanza frequentato dall’arte contemporanea. Muri di scatole di cartone, di latte da biscotti arrugginite, di valigie, di abiti ripiegati, di stracci… Boltanskj, Mauri, Pistoletto, Buren…

Ce n’era bisogno? Ce n’è sempre bisogno. Perché sempre ci si distrae, si dimentica, si accetta l’inaccettabile. Dalla spazzatura sulle pendici alle demolizioni alle cementificazioni alle pale eoliche della mafia, proprio lì su quello splendido panorama. «Il lavoro progettato ed eseguito sul posto, con la sua presenza fisica e specificità plastica, è un intenzionale strumento di intervento critico nella contestualità ambientale: una provocazione e un’ipotesi per un diverso rapporto fruitivo con l’ambiente». Lo scriveva Mauro Staccioli a proposito del suo muro alla Biennale di Venezia nel lontano 1978. Era cemento, alto otto metri, e occludeva la vista della laguna. “Provocazione e ipotesi” per un diverso rapporto coll’ambiente circostante e il paesaggio è anche “Monumentale” per i giovani architetti siciliani di Analogique (Claudia Cosentino, Dario Felice e Antonio Rizzo), che l’hanno progettato e cui rimprovero soltanto di non aver studiato un sistema differente, autoportante, di ancoraggio. Peccato! Vale la pena comunque ricordare che, presente alla 57 edizione della Biennale di Venezia, lo Studio ha realizzato vari progetti per musei e Saloni, per Farm Cultural Park di Favara e per Legambiente di Firenze.
Le polemiche in città non si sopiranno in fretta. Chi non riesce a sopportare l’opera si consoli pensando che ciascuno di noi si è trovato, si trova e sicuramente si troverà a dover accettare cose che non gli aggradano – da luminarie e addobbi natalizi e non, a sculture permanenti con o senza piedistallo, da mappamondi a concerti, a illuminazioni pseudo artistiche… Non siamo tutti uguali e un briciolo di tolleranza reciproca non è di troppo. Tanto più che si tratta di istallazioni provvisorie leggere e smontabili, che non distruggono non cementificano, non danneggiano. A differenza di ben altre operazioni che hanno deturpato in permanenza il nostro territorio.

Cinzia Farina