Viaggio in una delle province più depresse d’Italia. Dove le vie sono inagibili ma tutti passano e la Venere di Morgantina è nascosta tra i boschi

Enna, strade sbarrate e tesori d’arte nascosti

enna panoramica
Enna: nella camera del lavoro entri e trovi appese alle pareti vec­chie ban­diere del Pci, ritratti di Pla­cido Riz­zotto e un vec­chio, sto­rico, poster del mani­fe­sto: «La Rivo­lu­zione non russa». Se non russa, la rivo­lu­zione in que­sta terra al cen­tro della Sici­lia – senza sboc­chi sul mare, iso­lata da tutto e con una disoc­cu­pa­zione oltre il 35 per cento – son­nec­chia. Con improv­visi balzi, impen­nate di dispe­ra­zione che si tra­du­cono in atti tra­gici, ecla­tanti. A Leon­forte ancora si piange Michele La Delfa, un ope­raio edile disoc­cu­pato che, escluso dall’assegnazione di una casa popo­lare, prima dell’estate è salito sul tetto del muni­ci­pio del paese e si è dato fuoco, morendo dopo alcuni giorni di ter­ri­bile ago­nia in ospe­dale. Faceva parte del diret­tivo della Fil­lea Cgil e qui ti rac­con­tano che, durante la cena di fine anno, lo ave­vano sen­tito ripe­tere al figlio: «Man­gia, mi rac­co­mando. Quando ti rica­pi­tano tutte que­ste cose!» Sem­bra una sto­ria da Ita­lia del dopo­guerra, la scena forte di un film neo­rea­li­sta. Ma non è così: è oggi, è il 2014 ed è a due passi da casa nostra.

Que­sta è una terra abi­tuata a sof­frire. Una terra di brac­cianti e di mina­tori: dalle miniere di Pasqua­sia per tanti anni si sono estratti i sali alca­lini misti, fon­da­men­tali per la pro­du­zione del sol­fato di potas­sio; da que­ste buche pro­fonde in tanti sono andati a lavo­rare in Bel­gio e nelle miniere di tutta Europa. E non tutti sono tor­nati. Eppure la situa­zione si sta facendo inso­ste­ni­bile. Aumen­tano le paure, la pres­sione sociale di gente che pure non è abi­tuata ad avere una vita troppo facile. In edi­li­zia in un solo anno sono andati persi due­mila posti di lavoro. La zona indu­striale del Dit­taino è un cimi­tero di pic­coli sogni indu­striali pre­ci­pi­tati in spe­cu­la­zione e dimen­ti­cati. L’agricoltura appas­si­sce e potrebbe fio­rire, i gio­vani non tro­vano un lavoro e i vec­chi lo hanno perso e la riforma For­nero ha allon­ta­nato – facen­dola diven­tare una meta quasi astratta – l’età del pensionamento.

Eppure il para­dosso è che il lavoro ci sarebbe, se solo si deci­desse di allo­care meglio risorse pub­bli­che piut­to­sto che dedi­carle a inu­tili e gene­rici sgravi fiscali o bonus assun­zioni (per non par­lare ovvia­mente di ciò che fini­sce in malaf­fare). Sarebbe un lavoro antico e dolce: la cura del ter­ri­to­rio disa­strato da anni di incu­ria e abban­dono. In Sici­lia la Pro­vin­cia di Enna vanta infatti un pri­mato poco invi­dia­bile: quello del mag­gior numero di strade chiuse (40), fra­nate, impra­ti­ca­bili o con per­corsi impos­si­bili, ancora dise­gnati sulle vec­chie traz­zère che si attra­ver­sa­vano a dorso d’asino. Rispol­ve­rando un po’ di sano key­ne­si­smo si potrebbe dire dun­que che di lavoro ce ne sarebbe tanto per gli ope­rai disoc­cu­pati. Ma i can­tieri sono chiusi da tempo e non accen­nano a ripar­tire. Non solo: Enna è ricca di beni archeo­lo­gici e pae­sag­gi­stici. Uffi­cial­mente sono regi­strati 200 siti archeo­lo­gici – tra cui spicca Piazza Arme­rina – il 90 per cento dei quali però è chiuso, in stato di semi abban­dono o molto dif­fi­cile da rag­giun­gere. I pochi scavi che si fanno ven­gono «cata­lo­gati», quando va bene, e subito richiusi per­ché non ci sono risorse per man­te­nerli aperti al pub­blico. I comuni della pro­vin­cia ospi­tano inol­tre 586 monu­menti cen­siti: castelli fede­ri­ciani e cen­tri sto­rici impor­tanti come quelli di Nico­sia e Troina, la prima base dei Nor­manni in Sici­lia. Strade sbar­rate e tesori chiusi: e il turi­smo, che potrebbe essere una grande risorsa, attende. Solo per fare un esem­pio: per vedere la Venere di Mor­gan­tina, ripor­tata ad Aidone in pompa magna da Rutelli che riu­scì a strap­parla al Paul Getty Museum di Malibù, biso­gna per­cor­rere, stac­can­dosi dalla Palermo-Catania, una strada trac­ciata in mezzo ai boschi e molto stretta: due pull­man in senso oppo­sto avreb­bero dif­fi­coltà a incro­ciarsi. E così men­tre in poche set­ti­mane in Usa 400 mila per­sone hanno potuto vedere il capo­la­voro, ad Aidone que­sta for­tuna è toc­cata finora solo a 30 mila visitatori.

Alfredo Schilirò

Alfredo Schilirò

Per que­sto Alfredo Schi­lirò (nella foto), gio­vane e dina­mi­cis­simo segre­ta­rio della Fil­lea Cgil di Enna, ha scritto una let­tera aperta al pre­si­dente della Repub­blica, Gior­gio Napo­li­tano. Un invito a per­cor­rere – si fa per dire… – le impos­si­bili strade della pro­vin­cia e un grido d’allarme per l’emergenza lavoro della sua terra. «In Sici­lia – scrive il sin­da­ca­li­sta – in edi­li­zia si sono persi 70.000 posti di lavoro negli ultimi cin­que anni (…) Per quanto riguarda la pro­vin­cia di Enna, i dati evi­den­ziano un vero e pro­prio bol­let­tino di guerra. Dal 2008 a oggi riscon­triamo una dimi­nu­zione della massa sala­riale di circa 8 milioni di euro e una ridu­zione dei lavo­ra­tori con­si­stente. Si passa dai 4.103 ope­rai attivi nel 2008 ai 3.016 del 2011, con un’ulteriore calo di 1.000 unità nel 2013 e con la scom­parsa del 15 per cento delle imprese edili». Insomma: un grande ter­ri­to­rio da curare e la dispe­ra­zione del lavoro che non c’è più. Un bino­mio che in un paese civile non potrebbe reggere.

Napo­li­tano non è venuto, ma la sua segre­te­ria ha rispo­sto con grande sol­le­ci­tu­dine e atten­zione all’appello. Abbiamo pro­vato a farlo noi, il suo per­corso: due giorni in viag­gio con gli occhi spa­lan­cati su un pae­sag­gio stu­pendo, duro come quelli che solo il Sud sa offrire senza sconti o tre­gue. A Leon­forte, il tea­tro tra­gico del sui­ci­dio di La Delfa, par­liamo con Car­melo Ciurca, 60 anni, ope­raio edile disoc­cu­pato da sette ma che non potrà andare in pen­sione prima di un lustro. Lo incon­triamo nella pic­cola car­to­le­ria di fami­glia, sul corso prin­ci­pale del paese, un nego­zio sguar­nito e umile che in tempo di crisi è in grande dif­fi­coltà. Con appa­rente fred­dezza e faci­lità ti sgrana subito frasi che fanno tre­mare: «Quando ho smesso di lavo­rare – rac­conta – avevo 25 anni di con­tri­buti. Que­sto vuol dire che al momento di andare in pen­sione avrò un asse­gno da mise­ra­bile e con­ti­nuerò, come adesso, a fare una vita da mise­ra­bile fino a che morirò. Spe­riamo pre­sto, per­ché non si può andare avanti a lungo così». «Siamo allo stremo – aggiunge dopo una breve pausa – Il paese sta morendo, tutti vanno via, restano solo i vec­chi e nes­suno fa niente: sin­daco, pre­fetto… Mi dicono di avere pazienza, ma che pazienza si può avere alla mia età, cosa si può aspet­tare ancora?» Car­melo ha due figli, l’unico che lavora sta a Milano, si è lau­reato, «per­ché quando avevo un lavoro avevo la mia dignità e sono riu­scito a farlo stu­diare», scan­di­sce ora con orgo­glio sol­le­vando appena il tono della voce (e intanto il figlio più pic­colo, quello senza lavoro, entra e ci guarda par­lare con grande, troppa, naturalezza).

Cen­tu­ripe è un’altra tappa. Ci si arriva pas­sando per una lunga schiera di agru­meti che un tempo garan­ti­vano benes­sere. Oggi non è più così. I con­ta­dini male­di­cono la glo­ba­liz­za­zione, ma intanto sono restii a con­sor­ziarsi per essere più com­pe­ti­tivi. Supe­rato un pae­sag­gio verde che sem­bra spun­tato per caso da una terra brulla e riarsa, ci fer­miamo sulla strada pro­vin­ciale 41 che col­lega Cen­tu­ripe con Paternò: la prima della lunga teo­rie di strade inter­rotte. Fac­ciamo tappa in cima a una pic­cola frana. «La strada è chiusa al traf­fico da diversi mesi», dice subito Schi­lirò. Ma pro­prio men­tre ci rac­conta che il can­tiere non parte per un con­flitto di com­pe­tenze tra Pro­vin­cia, Comune e Acquaenna, die­tro di noi passa una mac­china. Poi si arram­pica addi­rit­tura un camion. La strada è uffi­cial­mente chiusa, ma in tanti la per­cor­rono lo stesso. Anche le forze dell’ordine. Spesso non se ne può fare a meno: «Il primo pronto soc­corso per i cen­tu­ri­pini sta a Paternò – rac­conta il sin­da­ca­li­sta – a 25 chi­lo­me­tri di distanza da qui per­cor­rendo que­sta arte­ria. Se si prende la strada che invece è aperta al tran­sito, i tempi di per­cor­renza rad­dop­piano«. L’arteria è impor­tante anche per­ché col­lega Cen­tu­ripe alla sua area arti­gia­nale e agli agru­meti a valle. Due delle cin­que strade che escono dal paese sono chiuse: in un caso ha dato una mano un pri­vato, che ha accon­sen­tito a spia­nare con la ruspa un rudi­men­tale pas­sag­gio – non asfal­tato e peri­co­loso – attra­verso le sue pro­prietà per bypas­sare la curva fra­nata. In man­canza di altro ci si ingegna.

È un elenco senza fine quello delle strade stra­ziate che attra­ver­siamo: la strada che col­lega sem­pre Cen­tu­ripe a Regal­buto, il paese che diede i natali a Ric­cardo Lom­bardi, è fra­nata; il col­le­ga­mento tra Gagliano e l’autostrada Catania-Palermo è chiuso da cin­que anni (anche qui con­tro­ver­sie tra ditte, pro­cessi, ricorsi al Tar ecce­tera ecce­tera) e oggi domina il pae­sag­gio un ponte inter­rotto, un’armatura sguar­nita e con i piloni arrug­gi­niti but­tati su un fianco come bestie pre­i­sto­ri­che senza vita; e, ancora, la strada pano­ra­mica per Enna, la più impor­tante per rag­giun­gere il capo­luogo, chiusa anch’essa da tempo al traf­fico e la sta­tale che col­lega Nico­sia con Cala­sci­betta, con il suo vil­lag­gio bizan­tino e la chie­setta pala­tina, inter­rotta da due anni per uno smottamento.

In due giorni fit­tis­simi incon­triamo solo un can­tiere aperto con un po’ di ope­rai al lavoro, quello della sta­tale 117, il tratto locale della famosa strada dei due mari che dovrebbe met­tere in comu­ni­ca­zione Nord e Sud della Sici­lia tra Santo Ste­fano di Cama­stra e Gela e che va avanti con len­tezza da anni in uno sner­vante e insen­sato stop and go.

Ma forse l’esempio più emble­ma­tico di que­sto sfa­scio resta l’arteria che col­lega Assoro con la valle del Dit­taino (natu­ral­mente dis­se­stata): la zona indu­striale di Enna. Il Dit­taino doveva rap­pre­sen­tare il sogno di svi­luppo della pro­vin­cia, un’opportunità per una terra che doveva sosti­tuire miniere e mina­tori lasciate morire senza alter­na­tive cre­di­bili. Nella valle le aziende un tempo c’erano, la Sipem, per esem­pio (tubi in cemento 300 addetti) Dete­ri­ta­lia (deter­sivi), Ipra (solu­zioni fisio­lo­gi­che). Oggi a per­cor­rerla in paral­lelo davanti agli occhi si svolge uno dei tanti cimi­teri indu­striali che attra­ver­sano il paese. Capan­noni acca­sciati, depo­siti arrug­gi­niti e vinti dalla natura che avanza inon­dan­doli di sterpi ed erbacce. Resi­ste, solo, una pic­cola filiera agroa­li­men­tare (Cec­cato e Pan­dit­taino), anch’essa però in dif­fi­coltà. «Non abbiamo aziende – dice Rita Magnano, segre­ta­ria gene­rale della Cgil di Enna – e quelle che sono arri­vate, al momento della chiu­sura delle miniere con la pro­messa della nascita di una zona indu­striale hanno inta­scato con­tri­buti pub­blici e poi se ne sono andate, abban­do­nando il ter­ri­to­rio nell’assenza totale della poli­tica che qui non si è mai mossa fuori da uno schema di bre­vis­simo respiro e clien­te­lare». Poco più in là si sta­glia l’enorme Sici­lia Outlet Vil­lage, il più grande cen­tro com­mer­ciale dell’isola, quasi deserto in una mat­tina autun­nale e pio­vig­gi­nosa: anche que­sta, a suo modo, un’atmosfera cimi­te­riale, sep­pur vestita per un’improbabile festa.

Si dirà: quella qui descritta è una delle tante sto­rie pos­si­bili di un’Italia meri­dio­nale che mette insieme i risul­tati di una crisi glo­bale in atto con arre­tra­tezze ata­vi­che e per­si­stenti mio­pie su un pos­si­bile riscatto. Forse è così. Tut­ta­via un aspetto mi pare sin­go­lare e degno di nota (anche se magari non varrà solo per que­sta terra). La man­canza di pro­spet­tive acco­muna gio­vani e meno gio­vani, a dimo­strare, in nega­tivo pur­troppo, che le con­trap­po­si­zioni gene­ra­zio­nali ela­bo­rate ad arte ser­vono a poco e non sono reali. Marco La Paglia, disoc­cu­pato, ha 30 anni e un figlio di quat­tro. Rac­conta: «Mi man­tengo con lavo­retti occa­sio­nali e con l’aiuto di mia madre che fa quello che può. Il lavoro è diven­tato un lusso. Lo cerco con­ti­nua­mente, accre­sco le mie com­pe­tenze, prendo paten­tini, ma niente. Nei col­lo­qui mi chie­dono, come prima con­di­zione, l’esperienza: ma come fac­cio se nes­suno mi dà la pos­si­bi­lità di comin­ciare»? Marco ha un diploma da geo­me­tra, ma le uni­che pos­si­bi­lità che si gli offrono, in que­sto campo, sono tiro­cini «in cui non solo non vieni pagato, ma non impari niente: ti fanno fare foto­co­pie, pic­cole commissioni».

Se fai un salto gene­ra­zio­nale all’indietro, non è che trovi sto­rie tanto migliori. Sicu­ra­mente non lo è quella di Franco Vari­sano, 59 anni, ope­raio edile disoc­cu­pato: anche lui gra­zie alla “For­nero” dovrebbe lavo­rare, magari, alla sua età, su un pon­teg­gio o in altre situa­zioni fati­cose e peri­co­lose: «Ma almeno date­celo que­sto bene­detto lavoro – ci dice – Noi non abbiamo paura del lavoro, ma di un’altra cosa: dire ancora chiedo scusa a vos­sia, voscienza bene­dica». Vari­sano era uno di quelli che in can­tiere si faceva sen­tire, era sin­da­ca­liz­zato, pren­deva la parola e quando era il caso pro­te­stava. E così, nono­stante avesse un con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato per l’intera pro­vin­cia di Enna, è stato licen­ziato. Una let­tera dell’azienda datata 20 mag­gio 2011, che ancora con­serva tra le sue carte, gli comu­nica che il 23 mag­gio sarebbe stata la sua ultima gior­nata lavo­ra­tiva. Franco non si è abbat­tuto, ha la scorza del caruso abi­tuato a lot­tare, la sua voce si incrina solo quando ti rac­conta del padre, mina­tore, emi­grato in Bel­gio, tre notti da solo in pro­fon­dità con una cavi­glia rotta («è stata la sua for­tuna, alla fine: dopo l’incidente ha lasciato la miniera ed è tor­nato a Enna per costruirsi una casa») o quando ricorda i bam­bini che tor­na­vano morti a dorso di mulo uccisi a basto­nate dal padrone. Da un po’ di tempo Franco col­la­bora con la Fil­lea, gira per can­tieri e incon­tra ope­rai delusi, sfi­du­ciati, poco inclini alle spe­ranze. «Qui la gente si accon­tenta di lavo­rare anche per 25 euro al giorno – rac­conta – giu­sto per por­tare a casa qual­cosa da man­giare. Ho visto per­sone ver­go­gnarsi di guar­dare in fac­cia la pro­pria moglie o in dif­fi­coltà per non poter com­prare libri e qua­derni ai figli». Ma la dif­fi­coltà di fare sin­da­cato in terre come que­ste è un’altra sto­ria. O forse è la stessa.


Stefano Iucci per il Manifesto


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