Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni

Ora i siciliani e la politica devono prenderne atto. Le elezioni regionali di domenica 5 novembre, qualunque sia il punto di vista individuale, rappresentano un crocevia con cui, tutti coloro che saranno chiamati a dare il proprio contributo per salvare la Sicilia, devono fare i conti. La questione per i candidati alla presidenza e all’Ars non è crogiolarsi nelle inconcludenti festose parate con big nazionali di partito e supporters, ma di comprendere la gravità del momento per poi, se eletti, agire di conseguenza. C’è una vera “questione siciliana”, che costituisce una bomba pronta ad esplodere in un’Italia sempre più a doppia velocità, che trova la sua sintesi in particolare nell’area interna dell’isola. Area dove si concentrano tutti gli appelli non raccolti (come non ricordare quello accorato sulla viabilità del vescovo di Nicosia), i progetti abortiti, le distanze mai colmate. Area dove sono stati sperperati denari pubblici e nello stesso tempo sono state anche sottratte ingentissime risorse come, ad esempio, quelle destinate al collegamento della cosiddetta Nord-Sud, incompleta proprio nella parte interna dell’isola tra Mistretta, Nicosia e Leonforte. Una grande infrastruttura che, se completata, darebbe un grande respiro occupazionale ed economico alla zona più bistrattata dell’ennese e, più in generale, all’intera regione. Non solo, nessuno dei candidati al governo della Sicilia finora ha fatto cenno delle amare considerazioni che sono contenute nel rapporto Svimez che, come avviene purtroppo ogni anno, “certifica la cronica crisi economica del Mezzogiorno”. I dati Eurostat sembrano non contino nulla per chi guida il Paese: la Sicilia, su 263 regioni, è collocata al 263° posto tra quelle con più inoccupati dell’intera Europa. Sono dati che dovrebbero scatenare una vera rivoluzione sociale, invece passano quasi in sordina. Chi può non essere d’accordo con la semplice considerazione, che è la premessa per un vero sviluppo economico e sociale, e cioè che in economia le infrastrutture logistiche (ferrovie, autostrade, porti, strade provinciali e statali, aeroporti) costituiscono la precondizione dello sviluppo, per cui privarne un territorio (per non parlare di quelle esistenti per lo più abbandonate o mantenute in pessimo stato) significa condannarlo alla inesorabile condizione di arretratezza economica e sociale? Il Documento di economia e finanza del Governo Gentiloni è lo specchio di scelte consolidate da decenni. Mentre al Centro Nord si costituiscono le grandi piattaforme portuali, aeroportuali, strade e ferrovie, le gallerie, i trafori, i valichi, i passanti e si viaggia su Frecciarossa, la Sicilia rimane priva di binari dell’Alta velocità e, talvolta, dei semplici raddoppi ferroviari. Intere parti dell’isola, abitate da centinaia di migliaia, se non da milioni, di abitanti, si muovono ancora su linee costruite alla fine dell’800, con l’aggravante che vengono persino soppressi i treni che collegano l’isola con il continente. Abbiamo le peggiori autostrade del Paese, ridotte in condizioni vergognose, strade statali e provinciali ridotte a mulattiere, così le ha definite il vescovo di Nicosia, mons. Salvatore Muratore. E’ evidente per chiunque che la crisi di questa Regione è, quindi, soprattutto infrastrutturale; per cui, senza coesione logistica con il resto del continente nessuno investe in Sicilia determinando, per conseguenza, la crisi economica e sociale e condannandola a restare periferia dell’intera Europa. Allora le richieste che i siciliani dovrebbero fare a coloro che si candidano a governare la Regione devono rispondere a una logica coerente: costringere il governo centrale, non a parole come si sta facendo in questi giorni, a destinare le risorse necessarie per delle infrastrutture indispensabili per la mobilità tra la Sicilia e il resto d’Italia e d’Europa (Che fine ha fatto la Palermo-Berlino?). Intanto, nell’attesa del voto del 5 novembre, ai siciliani viene somministrata una bella dose di mirabolanti promesse da destra a manca. Vogliamo credere a tutti ma non possiamo però non ricordare un aforisma di un vecchio politico francese, Georges Clemenceau: “Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia”.

Giacomo Lisacchi