Leonforte. Sul processo di Gabriella Gallo, morta “di parto”

Leonforte. Sono passati più di sette anni da quando l’11 marzo del 2011 Gabriella Gallo moriva “di parto” e dopo udienze, rinvii e relazioni peritali, si è giunti al secondo grado di giudizio per i sei medici indagati.
L’imperizia, la superficialità e la negligenza unitamente alle gravi deficienze strutturali sono le cause della morte di una giovane donna, questo dicono le carte processuali. Tutto il processo ha però dato voce anche a una sorta di tifoseria paesana, che ha messo chi considera la morte di una puerpera: un danno collaterale, imperdonabile, per la buona immagine della classe medica e di un nosocomio destinato alla chiusura e per ciò depotenziato già al tempo dei fatti sopracitati; contro chi domanda giustizia e verità.
Giustizia e verità per una morte evitabile e per ciò inaccettabile, giustizia e verità per il riscatto di un popolo destinato a morire di mala sanità per indifferenza e dolo. Capolavori di equilibrismo retorico, si sono usati, per evitare le responsabilità mediche e addurre ragioni tecnico/ funzionali e di carenze ospedaliere o finezze dialettiche sono state dette per capovolgere i fattori e salvare la struttura a discapito degli operatori. Giochi di ruolo, coalizioni di classe e appartenenza, al limite del ridicolo per stringersi a questi contro quelli senza rispetto per il dolore di entrambe le parti, senza ritegno per quella verità tanto auspicata. La melliflua mistificazione dei fatti troppo spesso contraddittoriamente interpretati nelle aule di giustizia, dove si invocava il fato e l’ineluttabilità dell’avverso destino in luogo della scienza e del progresso lontani dal cuore della Sicilia, hanno evidenziato lo stato della nostra sanità: PESSIMO.
I professori convocati per spiegare e chiarire hanno sempre denunciato la miseria dell’ospedale leonfortese, stupendosi dell’ arretratezza e della mancanza degli strumenti salva vita. Come si sarebbe potuto partorire in sicurezza in un ospedale mancante di tutto? Allora però si faceva. Tantissimi bambini dell’entroterra siculo sono nati in quell’ospedale, le cui pecche (omertosamente taciute da chi sapeva perché vi operava) sono emerse solo dopo. Si è però preferito credere che la responsabilità della scelta, infausta, fosse tutta e solo della vittima.
“Lei doveva saperlo che il terzo figlio era rischioso”, “doveva andare altrove”. Dove? La morta è la sola colpevole dunque. E’ stato un alibi comodo per giustificare chi avrebbe dovuto indottrinare, agire per tempo e evitare il rischio, conoscendolo. E’ stato detto per troppo tempo, da troppe persone eppure allora l’ospedale era munito di reparto di ostetricia e ginecologia aperto e affollato di tante donne, fiduciose e certe che i dottori e il personale sanitario avrebbero agito per il loro bene. Si è però preferito pensare che il torto fosse di Gabriella: una sbagliata valutazione del pericolo, ma a valutare il pericolo dovevano essere i medici e non la paziente. Si è detto dei familiari: “sciacalli” perché la giustizia rimborsa la perdita, garantendo altresì il posto di lavoro a chi sbagliando ha provocato la perdita, involontariamente certo. Si è raccontato il dolore degli imputati e si è taciuto quello delle vittime, i familiari. Ora, per piacere, basta. Gabriella Gallo aveva 34 anni, era sana e piena di speranze ed è morta per mano di una sanità malata, che è fatta di uomini inclini a pensarsi potenti e intoccabili. E’ con questa verità che i suoi familiari dovranno convivere per il tempo che gli è stato dato.
Per cortesia quindi rispettateli.