Enna: Concluso il laboratorio teatrale di Horacio Czertok del Teatro Nucleo

Enna. Si è concluso oggi, alla Casa di Giufà, il terzo laboratorio del progetto “Un clown per amico” voluto dall’assessorato alle politiche sociali del comune di Enna, e proposto dall’associazione “teatri del cielo” di Walter Amorelli.

Gli allievi, guidati da Horacio Czertok (Teatro Nucleo) nei primi cinque giorni; e nei restanti due da Marco Lucuano, attore, regista e formatore teatrale del Nucleo; hanno lavorato sul conflitto, sulla credibilità dell’azione e reazione nell’ancestrale capacità di fare già teatro nella vita.

Ma come lo si sa fare? Tanti gli interrogativi cui si è tentato di dare risposta tra conflitto e incontro, tra metodo e improvvisazione, ma soprattutto con l’esplorazione del sé attraverso l’Altro nel gruppo.

Horacio Czertok, è direttore artistico, attore, regista e docente della compagnia Teatro Nucleo, fondata nel 1974 a Buenos Aires e poi rifondata a Ferrara, e con la quale pratica una ricerca teatrale rivolta a spettatori “non professionisti”, nelle strade e nelle piazze del mondo, nell’ambito psichiatrico e nel carcere.

Lo scorso sabato, nei locali della casa di Giufà, ha messo in scena “Contra Gigantes”, tra gli spettacoli del Teatro Nucleo che più hanno circuitato nel mondo.

 Come è stata questa esperienza di laboratorio e quali risultati miri a raggiungere con gli allievi di solito?

Per me è importante sfatare alcuni pregiudizi che ci sono a proposito del teatro negli spazi aperti o nel teatro di strada che tutti, più o meno ci portiamo dentro; esiste l’idea che il teatro di strada appartenga ai saltimbanchi da animazione. Un’idea collettiva non solo nelle persone comuni ma anche negli attori medesimi, per cui si tende a sentirsi bene solo quando si sta su un palco in un teatro al chiuso con tutta l’organizzazione dello spettacolo, mentre ci si sente a disagio fuori di lì.

Per me è tutto il contrario nella mia esperienza, per il tipo di straordinaria libertà che la strada e la piazza offrono all’artista di teatro; ci è concesso lavorare in un ambito pieno di possibilità come è l’urbanistica delle nostre città quali organismi viventi dove sta la gente; la storia che c’è dentro alla gente che abita in questi posti ci dà una grande sfida piena di possibilità, ma è necessario superare il pregiudizio.

Il laboratorio va in quella direzione, è vero che qui, in questi giorni non abbiamo lavorato all’aperto, però si è provato a mettere in discussione alcune idee fisse e pregiudizi, alcune idee ricevute.

Quello che abbiamo compiuto in questi giorni è stato, nella protezione dello spazio chiuso, lavorare a rovescio, cioè partire dalla constatazione che il teatro lo facciamo già, abbiamo anche una prassi: cambiamo personaggio, atteggiamento ecc., e quindi a cosa serve un corso di teatro se lo sappiamo già fare? A capire come lo sappiamo già fare, quindi più che insegnare alle persone che sanno già come fare una cosa, io lavoro per far venire fuori una qualità di presenza che ti consentirà di realizzarti o produrti teatralmente ovunque, senza bisogno di protezione o maschera.

Questo abbiamo fatto in questi giorni, e mi è sembrato che tutti i partecipanti abbiano condiviso il nucleo di questa idea del teatro con dedizione, entusiasmo e partecipazione.

L’attore professionista che collocazione trova in questa tipologia di teatro di strada?

È un questione molto personale. Cosa significa professionalità: vuol dire fare qualsiasi cosa per la quale tu sei pagato, e quindi prendi quello che ti offre il mercato? In tal senso la professionalità sarebbe vivere di quello che si fa. Noi del Nucleo invece, la intendiamo come non Fare quello che si fa per vivere ma vivere per fare quello che si vuole fare, per fare teatro, e non fare teatro per vivere.

Questo significa acquisire un controllo sul mezzo di produzione, l’operaio conquista il mezzo di produzione e non  dipende più dal padrone, cioè dal mercato.

Impadronirsi del mezzo di produzione significa professionalità: costruirsi un mezzo di produzione dove si fa teatro seguendo i propri principi, creando oggetti e situazioni teatrali che rispondano agli stessi.

Quanto e quando il teatro diventa politico?

Il teatro come tutte le attività è una attività politica, tu fai politica vivendo, le scelte che fai hanno una implicazione politica, fare una separazione è l’inizio verso l’alienazione, verso la follia.

Decidere che testo o che tematica portare in scena, e dove e per chi, tutte queste scelte hanno una dimensione politica.

Molti non vanno a teatro perché convinti che non faccia per loro, questo è già un fatto politico scandaloso, perché se il teatro ha ancora un senso nella nostra società è perché deve interessare le persone come 2500 anni fa. Il teatro è nato nella Grecia di allora, e qua in Sicilia si faceva un po’ dappertutto; perché noi utilizziamo queste attrezzature solo per far venire i turisti o far guadagnare un po’ di soldi a una classe attoriale che fa le stagioni estive?

Questa è una tragedia: mal utilizzare o usare in modo così banale uno strumenti.

Tutte le volte che andiamo nelle piazze di un paese abbandonato, quel giorno, quel luogo vive quel teatro e accompagna la costruzione della scena, è presente, e nessuno resta a casa, questo è un po’ un miracolo. Ma  gli altri 364 giorni, si vive in una città senza teatro, la distribuzione delle risorse per il teatro li condanna a vivere senza.

Un gruppo come il nostro lavora per fare una sorta di giustizia elementare: è una missione che incarniamo e pratichiamo con felicità perché la scoperta del teatro che questa gente abbandonata fa è straordinaria. V’è come la sensazione che quel giorno si stia stabilendo una “comunitas”, la gente sta tutta insieme in quella piazza quel giorno.

Qual è il ruolo della mitologa del teatro classico nel vostro percorso di vita?

La parola scenica è stata una grande invenzione, aveva un peso importantissimo. Oggi vale poco, tutti vi si ingolfano, la parola è assolutamente  sovradimensionata e sottostimata.

Quindi per utilizzare la parola occorre ridarle quel ruolo che aveva, amministrarla con molto rigore. Più che la struttura del teatro che noi chiamiamo classico, noi guardiamo con molta attenzione alla commedia dell’arte. Mentre il teatro classico aveva una centralità che occupava tutti i cittadini liberi; un teatro con 40 mila posti; quando nasce la commedia, il teatro non è più lì ma a corte, e le strade sono senza teatro, di nuovo, il cittadino non vi ha accesso. Non v’è uno spazio popolare per i cittadini se non il mercato, e il teatro della commedia dell’arte è il mercato. A me interessa tutto quel resto della città.

Chi è il Don Chisciotte che rappresenti nei “Contra Gigantes” e chi è oggi, nella società moderna?

E’ una fonte continua di scoperte perché mi offre  l’opportunità di rivedere o risentire o riesplorare alcuni aspetti di questo personaggio .

Contra Gigantes è una produzione del 1990 che ha vissuto per vent’anni, anche ad Enna. Uno spettacolo senza parole nonostante attingesse a un testo di parola. C’è infatti uno studio continuo sul romanzo di De Cervantes che continuo negli anni, un lavoro senza fine perché un testo con tanti messaggi codificati, cose che l’autore vuole dire ma non può dire apertamente perché vive in una società sorvegliante.

Che cosa significa oggi non lo so, penso che nel fondo di ogni persona c’è un don Chisciotte che ha l’ambizione e la spinta per cambiare e lottare contro le ingiustizie come fa lui. Non è obbligatorio chinare la testa e farsi umiliare.

La  mia formazione professionale è: se si può combattere si deve combattere.

L’ultimo corso, quello per studenti delle scuole medie inferiori, si terrà dal 2 al 6 dicembre 2019 e sarà condotto da Danny Danno e Diva G (Theatre Degart).

 

Livia D’Alotto