Cena di Pasqua ebraica con Vescovo mons.Michele Pennisi

Erano più di cento i bambini delle scuole elementari del capoluogo a colorare il palco dell’auditorium della chiesa nuova di Enna Bassa per la cena ebraica con i bambini da parte del vescovo di Piazza Armerina. Monsignore Michele Pennisi. Amore, Unità e Gioia sono le tre parole che hanno pronunciato di più durante le due ore preparate magistralmente dalla loro insegnante di religione Anna Cuci. Genitori emozionati per questo rito, caratteristico della Pasqua ebraica. A suggellare la spiritualità dell’evento il vescovo Michele Pennisi, che dal centro della sala ha abbracciato simbolicamente due ali di commensali, un po stupiti e un po catturati dal ruolo di interpreti. Tutto è avvenuto secondo il rito che comprende tre parti principali: il racconto della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, la cena, le preghiere con i canti finali. E’ un tripudio di simboli e gesti che catturano l’assemblea di genitori che quasi si perdono nella preghiera, non curanti della presenza, a volte rumorosa, dei loro bambini, costretti al silenzio da un cerimoniale lungo. Sulla tavola pochi cibi, vengono consumati assieme al vino per ricordare la tradizione ebraica e per renderla sempre attuale. Le mamme si erano date da fare, ognuna aveva preparato qualcosa. Questa cena ebraica ha risvegliato nella memoria antichi ricordi agresti, forse perché la Pasqua, oltre a un vera motivazione religiosa, si è voluta legarla alla natura e al suo fiorire. Nei cibi sta il simbolismo e l’unione di due religioni quella cristiana e quella ebraica entrambe accomunate dalla stessa festa. E’ il vescovo a ricordare il significato della parola Pasqua; per gli Ebrei, “Pesah” significa l’uscita dall’Egitto. La loro Pasqua dura otto giorni, durante i quali ogni famiglia mangia agnello con erbe, poi spezzano il pane azzimo (non lievitato). Il carattere della santa cena comunitaria fatta col pane e col vino ha avuto dunque queste meravigliose connotazioni pasquali.

Sulla tavola apparecchiata si pone un vassoio contenente:
1) Tre azzime sovrapposte. Il sabato, quando si fa il Qiddush (consacrazione della festa) debbono trovarsi sulla mensa ,due pani interi in ricordo del léhem mishneh (pane doppio), la doppia dose di manna che i nostri padri nel deserto raccoglievano il venerdì perché servisse anche per il sabato. Nelle sere di Pesach, dovendosi spezzare una delle azzime fin dal principio della cerimonia, se ne mettono tre perché altrimenti non ne rimarrebbero due intere.

2) Una zampa di agnello arrostita, ricordo del sacrificio pasquale. Non si adopera un pezzo carnoso, perché non si abbia a pensare che si tratti del sacrificio pasquale vero e proprio, che non è permesso immolare se non esistono lo Stato ebraico e il Santuario nazionale in Gerusalemme.

3) Un uovo sodo, ricordo del Qorbàn haghigah (sacrificio festivo) che i convenuti per la Pasqua in Gerusalemme offrivano e mangiavano prima dell’agnello pasquale. Si preferisce l’uovo a qualsiasi altra pietanza perché, per la sua forma – è una superficie che non ha un principio né una fine – vien considerato il simbolo dell’eternità della vita; come tale si offre a chi è in lutto, nel primo pasto che consuma dopo il seppellimento di uno stretto congiunto. Anche in queste sere vuol essere manifestazione di lutto che si fa, come del resto in tutti gli avvenimenti lieti della vita ebraica, per il ricordo della distruzione del Tempio.

4) Tre specie di erbe amare: sedano, lattuga e indivia o altra insalata simile.

5) Haróseth, composta di frutta che ricorda, per il suo aspetto, il cemento e la malta che gli ebrei schiavi dovevano prepararsi per le opere in muratura che erano costretti a fabbricare.

6) Aceto o acqua salata o succo di limone che deve accompagnarsi al sapore amaro della verdura.
monio, documento di un’arte interessante anche se semplice e spesso ingenua.

La stampa produsse fin dagli inizi del secolo XVI splendide Haggadoth ricche di illustrazioni xilografiche o su rame. Anche in Italia si pubblicò nel 1560 la magnifica edizione di Mantova. Di curiose, caratteristiche xilografie, che in progresso di tempo furono riprodotte tanto da divenire quasi tradizionali, si ornarono nel secolo XVIII alcune edizioni di Venezia che si continuarono e si continuano a pubblicare anche oggi a Livorno.

Col moltiplicarsi delle edizioni si moltiplicarono anche i commenti e le traduzioni nelle lingue di tutti i paesi dove vivono ebrei.

Alle numerose edizioni viene oggi ad aggiungersi questa nostra, che ci auguriamo incontri il favore del pubblico ebraico d’Italia

La gentile pittrice Eva Romanin Jacur ci ha dato delle illustrazioni piene di espressione, di vigore e di grazia. E soprattutto ha saputo essere originale, cosa tanto più difficile, in quanto avrebbe potuto non riuscire a sottrarsi all’influsso dei modelli che i secoli passati ci lasciarono.

Schulim Vogelmann della Giuntina, con vero intelletto di amore, da maestro qual’è nell’arte tipografica, ha conferito alla pubblicazione l’eleganza e insieme la severità che si addicono a lavori di questo genere.

Alfredo S. Toaf

tratto da “Haggadah di Pasqua”, Unione delle comunità israelitiche italiane, Roma 1985 settima edizione pp. VII-VIII