Enna. Classifica finale premio letteratura umoristica “Umberto Domina” 2010

Enna. Classifica finale del premio di letteratura umoristica “Umberto Domina” 2010
La Giuria del Premio, integrata a norma dell’art. 8 del Regolamento, ha votato tra i dieci finalisti precedentemente designati, la classifica finale che è risultata così definitivamente determinata:
1 MARFISI EMANUELE di IMOLA (BO) con Diario di classe
2 CERRI SIMONE ACHILLE di ALAGNA (PV) con Italian Tabloid
3 RIZZO MARIO di ENNA con Deja vu quotidiano
4 BETTELLI BARBARA di SOLIERA (MO) con Oggi non mi alzo
5 TRIVELLATO AURO di RUBANO (PD) con 391 chicchi di riso
6 PLATI’ ANTONELLA di NAPOLI con Favole per bambine cattive
7 SCHEPIS LUIGI di TRIESTE con Solecchio
8 GIUSTI LINO & DI STEFANO ANT. Di S.CATERINA VILL.( PA) con L’ultimo chiuda la morta
9 ANGELICO TERESA MARIA di ZAFFERANA ETNEA (CT) con U votu di cummari Carmela
10 MIRCI MAURO di PIAZZA ARMERINA (EN) con Preannunzio di disastro

In conseguenza il 1° premio viene attribuito ad Emanuele Marfisi. Il 2° a Simone Achille Cerri ed il 3° a Mario Rizzo.
Il premio per la migliore opera “a carattere prettamente siciliano” viene attribuita a Maria Teresa Angelico.
Il segretario della giuria – Eugenio Amaradio

UN ALUNNO CHE DIVENTA MAESTRO
La stessa scuola vista davanti e dietro la cattedra
Emanuele Marfisi è nato per caso 38 anni fa a Imola, nel Palazzo rosso del Comprensorio residenziale Arcella. Dopo aver passato i primi quindici anni della sua vita facendo la spola tra la quinta D della scuola elementare Cappuccini e la Bocciofila, dove ha affinato l’arte della briscola sotto la supervisione di nonno Palmiro, ha deciso di mettere la testa a posto. Si è comprato una 127 verde pisello, ha finito gli studi e ha iniziato a lavorare in un ufficio con il suo bel computer e il biglietto da visita con scritto una parola in inglese che sinceramente non sa cosa vuol dire. La sua buona volontà ce l’ha messa tutta, si è comprato anche una giacca all’Oviesse per parlare con i clienti, ma poi il ricordo delle avventure di scuola, l’odore del gesso e soprattutto il caffè corretto dello storico bidello Porca Madoska l’hanno fatto tornare fra i banchi della quinta D come maestro. Tra quei muri è nato Diario di classe, il suo primo romanzo, secondo classificato al XXVII Premio letterario nazionale Città Cava de Tirreni.
Il protagonista Michele Marchesi ha dieci anni. Sogna di appiccicare la figurina di Luvanor nell’album Panini, di possedere gli occhiali a raggi x, di conoscere il Presidente Pertini e il porno-supereroe Gabriel Pontello.
Il suo apprendistato alla vita si consuma tra i banchi di una classe elementare, sotto la guida di un Maestro illuminato da un profeta: Bettino Craxi. Michele, però, preferisce la grammatica che viene insegnata nei locali fumosi della Bocciofila, dove nonno Palmiro, da solo, tiene a bada una massa di comunisti, e dove il Gemellone sforna bestemmie artistiche a ripetizione.
Venticinque anni dopo, eccolo di nuovo tra quegli stessi banchi, ma dall’altra parte della cattedra: è un maestro precario. Dovrà presto fare i conti con bambini xenofobi che non conoscono Daitarn 3 e Candy Candy, ma che sognano di andare in tv.
Assediato dai genitori, schiacciato dalla burocrazia e consolato dallo storico bidello Porca Madoska, proverà ad arrivare fino all’ultimo giorno di scuola.
Perché in gioco non c’è la promozione, ma la sua sopravvivenza.
Riportiamo ora qualche passo:
«Perché venite a scuola?» chiedo ai bambini, che mi rispondono con uno sguardo attonito. «Nessuna risposta? State otto ore chiusi in un’aula, e non vi chiedete mai il perché?»
«È obbligatorio» accenna Leone. «Certo. Se non lo fosse non verreste?»
«Assolutamente no» replica Mohamed.
«Non avevo dubbi».
«È il nostro lavoro, per questo veniamo a scuola» abbozza timidamente Giorgia.
«I vostri genitori vanno a lavorare per avere qualcosa in cambio. Giusto?»
«Lo stipendio» risponde Niccolò, il più bravo della classe.
«Bene. E quale sarebbe il vostro stipendio, quello di studenti?»
«Non abbiamo lo stipendio. È una gran fregatura venire a scuola, l’ho sempre saputo» ribadisce Mohamed.
«Nessun’altra idea?» «Per promuoverci o bocciarci».
«Maikol, bocciare non è una finalità della scuola. Tu non vieni a scuola per essere promosso, giusto? Perché venite a scuola?»
«Per imparare a scrivere e a contare». «Bene Jennifer, questo è uno dei tanti compiti della
scuola. Il compito fondamentale della scuola è quello di
prepararvi alla vita, di farvi diventare buoni cittadini».
«Pensate alla scuola come a un seme che piantate nel vostro giardino». «Io non ho un giardino, maestro!» «D’accordo, Shiraz, un po’ d’astrazione. Fai finta di averne uno» «Va bene».
«Dicevo, pensate a un seme che piantate in giardino. Ogni giorno lo innaffiate, con costanza, un po’ di fatica, ma anche con il desiderio che cresca e si trasformi in un
giorno lontano in un bellissimo albero. Chi mi sa dire che cos’è quell’albero?» «Un abete!»
«Shiraz, un po’ di astrazione. Nessuno mi sa dire che cos’è quell’albero?»
Un silenzio tombale avvolge l’aula.
«È il vostro futuro» sentenzio come fossi un guru indiano. I bambini mi fissano finalmente attenti. Non ci prendiamo mai la briga di spiegar loro il perché siano costretti
a stare rinchiusi in aula piuttosto che correre dietro a un pallone in un parco. Così la scuola diventa una prigione, invece di un’opportunità. Monotonia, invece di emozione. Un posto dove si impara ad annoiarsi.
«Il vostro futuro è come quel seme che piantate. Se a scuola sarete bravi, e quindi pianterete quel seme in un terreno fertile e lo annaffierete giorno dopo giorno,
sicuramente raccoglierete frutti succulenti».
«È una metafora!» urla Niccolò.
«Molto bene. Allora, come lo vedete il vostro futuro?
Che cosa vorreste fare da grandi?» urlo entusiasta alla classe, riconoscendo finalmente una luce nei loro occhi.
«Di certo non il maestro» replica Mohamed con aria di sfida.
«Bene, vedo che sai con certezza cosa non vuoi. È un buon punto di partenza».
«Vorrei essere un giocatore famoso e giocare per il Marocco. Vorrei anche una bella villa con una piscina olimpionica».
«Certo che hai poche pretese, Aziz!»
«Ma stai zitto! Sei uno scarpazzone, non diventerai mai un giocatore».
«Maikol, invece di dar contro al tuo compagno, dimmi: cosa vorresti portare con te nell’età adulta della tua infanzia?»
Maikol si disegna in faccia uno sguardo pensieroso. Poi si illumina: «Il Nintendo Ds e la Playstation 2».
«Maestro, io invece non vedo l’ora che finisca questa maledetta infanzia!»
«Ma come? Jennifer, l’infanzia è l’età più bella, la rimpiangerai fra qualche anno. Vedrai, passi tutto il tempo a desiderare di diventar grande, e quando lo diventi, passi tutto il tempo a rimpiangere quei momenti magici, quando ti sentivi protetta, sicura, e ti bastava un attimo per sognare».
«Sarà, ma io voglio crescere, Maestro. Non ne posso più di indossare la tuta e le scarpe da ginnastica. Voglio poter uscire quando mi pare, mettermi i tacchi, la minigonna.
E poi anche adesso sogno: sogno di andare in tv, ad Amici».
«Anch’io maestro!» urla entusiasta Giulia. «Voglio diventare la nuova Anbeta!» «Chi?» «La nuova Anbeta, guarda!» Giulia estrae un telefonino da sotto il banco e mi mostra un video di una ballerina che sembra essere posseduta dal demonio.
«Vuoi diventare come questa?» chiedo esitante a Giulia. Magari! Guarda come si muove. Guarda adesso. Guarda… ecco!» urla trionfante imitandone le movenze. Osservo la ballerina indemoniata sculettare ritmicamente contro il fianco robusto di uno scaricatore di porto in canottiera. Poi lo scaricatore la solleva come fosse un sacco di patate e la sdraia su un divano di pelle sopra il quale lei viene rapita da un orgasmo irrefrenabile. Giulia guarda il display del telefonino con gli occhi sbarrati dall’eccitazione. La immagino nella sua camera a saltare sul divano e a sognare di farsi trasportare dalle braccia dello scaricatore di porto, sotto l’occhio vigile delle telecamere.
O tempora, o mores!, urlo nei miei pensieri.
«Non ti piace maestro?» mi domanda Giulia, forse colpita dal mio sguardo afflitto.
«Non saprei. Non li guardate più i cartoni animati?» domando con un briciolo di speranza nel cuore. Ai nostri tempi le mamme si lamentavano che i cartoni animati ci rimbecillivano, ma ora, per questi bambini, sarebbero più istruttivi che la lettura della Costituzione.
La bontà di Candy, il candore e la genuinità di Heidi, la lotta del bene contro il male di Daitarn 3; ormai solo i cartoni animati possono costruire un vissuto valoriale nelle menti di queste generazioni. Altro che educazione alla cittadinanza.
«No maestro! Macché cartoni! Noi guardiamo il gieffe!» mi canzona Giulia, interrompendo i miei pensieri. «Cosa guardate?» «Il gieffe, il Grande Fratello». «Ecco, a me sembra che le vostre menti siano controllate dal Grande Fratello, il capo di Oceania, come nel bellissimo libro 1984 di Orwell». «Macché maestro! Il Grande Fratello è la nostra trasmissione preferita su Canale 5!» «Lo so, purtroppo». «A me piace Ferdi, maestro. È una gran figo». «Capisco, Jennifer». «A me mi piace Cristina!» urla entusiata Mohamed,
finalmente coinvolto nella discussione. «Si dice: “a me piace”. Mi raccomando, Mohamed,
stai attento alla correttezza grammaticale. Sono importantiii cartoni animati, sapete?» «Ma sono tutte storie inventate, non ci piacciono i cartoni, meglio il gieffe» insiste Giulia.
Nani e ballerine, penso, è sempre stato così, e così sarà sempre.
«Nessuno vuol fare il pirata?» chiedo ormai privo di speranze. «Ma i pirati non esistono, maestro!» mi irride Maikol.
«Allora, nessuno vuol fare, che ne so, l’impiegato comunale, la crocerossina, la veterinaria?» sussurro, fissando Giorgia Prigionieri come un poveretto fissa il suo unico biglietto della lotteria.
«Ma maestro, non si guadagna niente a fare questi lavori» mi ragguaglia innocentemente Giorgia. «Vuoi mettere con quel che si prende a fare la velina?»
Ed ora qualche commento:
Art-litteram” e “Progetto Babele” hanno scritto in proposito.
“Diario di classe” non è solo, come verrebbe da pensare leggendo il titolo del libro, il racconto puntuale di singoli episodi che in qualche modo hanno segnato le tappe della carriera scolastica e della giovane vita di Michele, un alunno che frequenta la quinta classe di una scuola elementare di un affollato quartiere popolare della provincia italiana, ma è una fonte circostanziata di notizie, appunti, riflessioni, panoramiche esistenziali e scorci sociali che Emanuele Marfisi, l’autore, ci regala, nel suo romanzo d’esordio, dopo averle sapientemente amalgamate in un suggestivo racconto come un consumato “veterano” della narrativa.
“Diario di classe” è un vero e proprio viaggio fisico e psicologico, le cui tappe reali o immaginarie che siano ci riportano, con fotografica precisione, a ritroso nel tempo in un passato quasi dimenticato e nella più quotidiana attualità. Episodi significativi di avvenimenti o fatti locali vengono annotati dalla fervida mente del ragazzino, rielaborati e metabolizzati dalla sua personalità in pieno fermento formativo e quindi presentati al lettore in maniera semplice ma decisamente accattivante. Le vicende sociali, politiche, familiari di un gruppo di famiglie residenti nel complesso popolare del “palazzo Rosso” di Arcella ad Imola, sono portate con garbo e decisione all’attenzione del lettore tanto da farlo entrare in quella esatta dimensione spazio/temporale così diversa da quella contemporanea.
Un diario che, da vicende personali, si amplia fino ad assumere le caratteristiche di un quaderno che narra eventi, sensazioni, emozioni, collettive. Nell’alunno-protagonista Michele Marchesi, infatti, si possono identificare tutti coloro che erano bambini negli anni 80 del secolo scorso.
In contrasto, ma per sequenza logica, a quel periodo, “Diario di classe” fornisce anche un perfetto spaccato di quella che è la società e la scuola attuale, infatti, l’autore Emanuele Marfisi che nella vita reale è un maestro di scuola elementare ha saputo trasferire nel libro, in maniera sintetica ed efficace, la sua esperienza lavorativa e il suo delicatissimo e importante ruolo di educatore, di colui che dovrà “aprire” le menti ai cittadini di domani. Così scorrendo parallele, le due vicende, del bambino e dell’adulto Michele, integrandosi e alimentandosi l’un l’altra, offrono al lettore delle piccole perle di narrativa.
Il linguaggio chiaro, scorrevole, a volte ironico, altre nostalgico accompagna gli episodi narrati, tratteggia gli ambienti, marca i volti dei personaggi, li fa uscire dal romanzo e li trasforma in esseri reali, molto più vicini a noi di quanto si possa immaginare.

AMERICAN TABLOID? NO … ITALIANO
Storie di malavita tra il serio ed il faceto
Simone Cerri è nato a Milano il 26 ottobre del 1973 e, saltando la fanciullezza spensierata e i turbamenti (pochi per la verità) adolescenziali che in questa sede possono interessare molto poco, si è laureato in Giurisprudenza con la specializzazione di Diritto Internazionale. Lavora nel campo del diritto come consulente legale per un importante istituto bancario e come tutor universitario per alcune materie giuridiche.
Nel tempo libero si è sempre dilettato a praticare sport ed a scrivere. Ora scrive molto di più. Nel 2005 venne pubblicato dalla casa editrice “Italia Press” il suo primo libro umoristico “S’ode a destra una squillo che tromba”, che era una raccolta di calembour e giochi di parole, poi nel 2010 è arrivato il primo romanzo, “Italian Tabloid” e stà inoltre partecipando ad un altro concorso letterario con un romanzo inedito “Un condominio di gente dabbene”, oltre che preparando un nuovo romanzo “Il mistero del talco”, una specie di giallo – umoristico. L’unico genere di cui scrive è quello umoristico; dal punto di vista letterario si è formato leggendo (e rileggendo) sostanzialmente 4 autori (in ordine assolutamente casuale): Paolo Villaggio, Stefano Benni, Max Bunker e Nino Frassica.
“Italian tabloid” prende ispirazione nel titolo dal celebre capolavoro di Ellroy “American tabloid” ed infatti (mooolto alla lontana) vorrebbe essere una traslitterazione del più cupo noir americano…all’italiana. Laddove nell’originale vi sono cinici poliziotti triplogiochisti e fighissimi qui ci sono modesti piedipatti che mirano alla pensione e a fare le vacanze a Ischia, laddove vi sono boss spinti da una cattiveria ed una cupidigia senza limiti, qui ci sono grotteschi capo banda con caratteristiche talmente assurde da non potere essere odiati davvero e racket come quello delle tombole famigliari, laddove ci sono killer granitici e senza esitazioni, qui ci sono scagnozzi con problemi piliferi che causano complessi, o che si esprimono a monosillabi. E se l’humus del capolavoro di Ellroy è quello delle spie, degli anti castristi, del gabinetto del Presidente, dei grandi imprenditori che muovono la politica internazionale, degli ex agenti di qualche sigla imprecisata ora al servizio di non- si-sa-più-bene-cosa, qui vi sono invece taxisti juventini, baristi – informatori, albergatori sabaudi, palazzinari in cerca di fama, giornalisti infidi, magistrati con vizietti innominati, funzionari pigri, cugini schizofrenici e via dicendo. Insomma laddove c’è il noir qui c’è l’umorismo, e laddove c’è l’America qui c’è l’Italia. Una realtà molto meno “big” dove tutto è in fondo “de noaltri”, dove niente in fondo funziona davvero, e dove le persone sono mosse da ambizioni molto più limitate. Ma magari si fanno ammazzare per amore della propria squadra di calcio, o per il danno causato al carrello dei lessi preparato dalla moglie, e riescono con astuzia e perseveranza a uscire dalle situazioni più difficili e apparentemente senza via di uscita, come il protagonista della storia. Ma che sono poi pronti a rovinarsi con le proprie mani, e a mandare tutto all’aria, davanti ad una pasta fumante (condita magari da una partita di calcio) oppure appena vedono una bellissima ragazza. In poche parole … sono italiani. Si tratta certo di un libro di accusa umoristica e surreale contro tanti archetipi del nostro paese … ma anche di un atto di affetto. Come diceva Mario Tobino; “L’Italia è bella, è fatta di uomini bizzarri e di eroi”.
Di seguito pubblichiamo un breve stralcio dell’opera: Il secondo grosso cliente invece era nato a Pantigliate, hinterland milanese, ma si faceva chiamare “il Marsigliese” perchè, come ripeteva sempre: “Un gangster che si chiama Marsigliese è più rispettato di uno che si fa chiamare “il Pantigliatese”. Difficile dargli torto. Peccato che in francese sapesse dire sostanzialmente tre parole: “Escargot”, “Autoroute” e “Saucisson”, che ripeteva assolutamente a caso. Ad esempio se gli veniva comunicato un complotto contro di lui da parte di un gangster rivale, lui faceva la faccia corrucciata alla Jean Gabin, poi un mezzo giro sulla poltrona rotante da ufficio e diceva “Saucisson!” come se volesse dire “Perbacco!”, “Poffarre!” oppure “Cazzo!”, ignorando che volesse dire “Salame”. Insomma metteva parole francofone (tratte dal suo vocabolario che comprendeva meno di una dozzina di parole) assolutamente a casaccio nel discorso. Aveva cominciato con il racket delle tombole famigliari; grazie a degli informatori che lo avvisavano quando c’era una tombola tra parenti (va da se che a Natale aveva un gran lavoro) si presentava quando erano già stati estratti dei numeri e con la violenza otteneva il pizzo. Come tutti i boss che si rispettano, per impaurire, minacciare, ed usare violenza nella gestione del suo bisinisse (pronuncia bisinisse) aveva un aiutante, certo Salvatore “Chemminchiadici” così chiamato perché ripeteva sempre questa frase, e nessuno l’ha mai sentito dire altre parole comuni come “Ciao”, “Buon Giorno”, “Evviva gli sposi” oppure “ Comune denuclearizzato”. Si narra che il giorno del suo matrimonio, visto che Salvatore di dire il fatidico “Si” non ne voleva sapere e continuava invece pateticamente a ripetere rivolto al prete “Chemminchiadici, Chemminchiadici” annuendo con la testa, per riuscire a celebrare il sacramento si dovette utilizzare la procedura (mai utilizzata sin dal Concilio di Calcedonia del 451 dopo Cristo) “Pro mentecattibus”, con ogni probabilità inventata al momento dal sacerdote per evitare di restituire le questue e poter quindi andare al banchetto a sfondarsi di antipasti. Non era un’ aquila quindi ma era cattivissimo. Ad esempio la leggenda dice che ad una tombola natalizia, visto il rifiuto dei presenti di pagare il pizzo, avesse scartato tutti i regali di due piccoli fratellini, rotto tutti i giocattoli destinati agli stessi urlando “Babbo Natale non esiste! I regali li porta Berluscone!” a perdifiato fino a quando non erano intervenuti i genitori, pronti a pagare pur di far cessare quello strazio. Forse il Marsigliese aveva messo sulle sue tracce proprio Salvatore e nonostante Mario non prevedesse tombole nei giorni a venire questo gli faceva venire i brividi.
Ed ora qualche commento:
Mara Peruzzi (Alberti Editore) ha scritto in proposito:
“Linguaggio fluido e scorrevole, stile lineare immediato e fresco, trama ben sviluppata, struttura buona. Storia di mafia tra il serio e il faceto. L’ironia è ciò che rende l’opera “diversa”, nuova, rispetto a storie che trattano lo stesso argomento. L’Autore riesce a sdrammatizzare creando situazioni umoristiche che rendono il tutto “ovattato”. Non mancano episodi duri, in cui il richiamo alla realtà è forte, e qui sta la bravura del Cerri, nel riuscire a rendere tali episodi e quindi indirettamente la mafia una sorta di caricatura di se stessa, aprendo delle “falle” che portano a sorridere della società attuale non solo italiana.
“Italian Tabloid” non è il solito romanzo di mafia, ma una proposta che vuole andare oltre i fatti narrati, oltre la cronaca per aprire uno squarcio grottesco in un mondo che fa parlare di sé attraverso sparatorie, vendette, pizzi…”
M. Baldacci (Ibiskos, Editrice Risolo) ha commentato:
“Buona la trama e certi spunti. Il punto di vista è ironico, a tratti pungente, realistico. Molta azione e carini gli inserti dialettali nei dialoghi”.
L’autore ci dice che: “quando ero ragazzino non perdevo una sola delle parodie (anche se questo è un termine che rende poco l’idea) che Franco Franchi e Ciccio Ingrassia facevano dei film più famosi, come “Farfallon” “Indovina chi viene a merenda”, o “Le spie vengono dal semifreddo” o il grandissimo “Per un pugno nell’occhio”. Mi piace pensare che il mio libro avrebbe potuto essere una base per una sceneggiatura per il grande duo, una specie di “L.A. Confidential” in salsa di pomodoro. Del resto se questo libro potesse essere riassunto in una sola frase penso che sarebbe questa di Nietzsche :” Non si può ridere di tutto e di tutti…ma ci si può provare”. Appunto…ci ho provato!”.