Filippo Cordova. Nel bicentenario della nascita protagonista del Risorgimento per iniziare celebrazioni 150° Unità d’Italia

Aidone. L’anno che sta iniziando sarà connotato dagli eventi che celebreranno il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, eventi che riguarderanno le tappe del Risorgimento e i suoi protagonisti. Ciò che ci si può augurare è che non ci si limiti a celelebrazioni retoriche, enfatiche e rituali ma che si colga l’occasione per riflettere sull’Unità compiuta, sulle occasioni perse, sui risentimenti ancora alimentati, per capire se 150 anni siano stati sufficientemente bastevoli a creare quella distanza che permetta di oggettivare le emozioni e guardare con obbiettività ai fatti storici, anche se ancora pregnanti di conseguenze per i nostri giorni. Questo auspicio è d’uopo per accostarsi ad uno dei personaggi siciliani più importanti e misconosciuti della storia del Risorgimento, quel grande siciliano che il conte di Cavour volle al suo fianco nella sua breve esperienza alla guida del nuovo Regno d’Italia. Sto parlando di Filippo Cordova, di cui ricorre quest’anno il bicentenario della nascita. Egli nacque il 1° maggio 1811 in Aidone, allora in provincia di Caltanissetta, e visse i momenti più drammatici ed esaltanti della breve parentesi costituzionale e indipendentistica del 1848 in Sicilia, del progetto unitario al fianco di Cavour e del governo nel Regno d’Italia, fino alla sua morte immatura a 56 anni. In occasione del primo centenario della sua nascita si costituì in Aidone un Comitato per le Onoranze presieduto da Ettore Capra, di cui resta traccia in un libretto di Antonino Ranfaldi, che ne fa un biografia ancora carica di risentimento per il misconoscimento di cui, secondo i suoi compaesani, era stato vittima Filippo Cordova, perché aveva osato violare i santuari del potere e dei privilegi mai fino ad allora intaccati. Un file rouge connota, infatti, l’opera politica del nostro, dalla “rivoluzione” siciliana all’Italia Unita: la difesa della popolazione più povera attraverso la lotta contro i privilegi baronali -lui che in mezzo alle grandi difficoltà istituzionali del governo siciliano, mentre cercava di fare cassa per finanziare la rivoluzione,  abolisce la tassa sul macinato!- e il proponimento di fare cassa anche con la vendita di beni demaniali ed ecclesiastici, entrambe le cose inaccettabili alle classi ancora dominanti e che gli valsero, soprattutto da parte della chiesa, una specie di damnatio memoriae. Questa celebrazione del bicentenario, che ci auguriamo la nostra comunità voglia tributargli nei modi e con la considerazione che il personaggio merita, dovrebbe promuovere studi e ricerche che ci restituiscano la statura reale del personaggio, dotato di quelle capacità per le quali Cavour non solo lo volle sempre al suo fianco ma addiritura, regalandogli la sua divisa (conservata nella Biblioteca Comunale di Aidone), l’aveva in qualche modo investito della sua successione.

Filippo Cordova è il capofila di quegli uomini di cultura di cui tra l’800 e gli inizi del novecento Aidone era ricca, addiritura all’interno della sua stessa famiglia nascono altri due senatori del regno, lo zio Gaetano Scovazzo, già ministro borbonico e poi senatore del Regno d’Italia e il nipote Vincenzo Cordova Savini. La sua è la storia tipica degli aidonesi di quell’epoca, e purtroppo ancora di quelli di oggi, giovanissimo è costretto a “emigrare” per studiare, prima a Caltanissetta e poi a Catania dove si laurea, diciottenne, in diritto civile e canonico; a ventisette anni è Consigliere provinciale a Caltanissetta, le sue lotte contro i servaggi baronali gli guadagnano il domicilio coatto a Palermo e qui egli scopre il mondo e il mondo scopre le sue doti intellettuali, la sua facondia, le sue grandi capacità amministrative e finanziarie: scoppiata la Rivoluzione del ’48, è eletto segretario del comitato rivoluzionario e deputato al Parlamento Siciliano, avanza proposte troppo audaci rispetto all’epoca: la sovranità popolare, il diritto degli operai al voto, l’indennità ai deputati bisognosi, la libertà di stampa; fa approvare la legge sull’esercizio del potere esecutivo da lui stesso formulata, motiva l’atto di decadenza dei Borboni. A seguito della sanguinosa ripresa del potere da parte dei Borboni è costretto all’esilio e, attraverso la Francia, arriva a Torino, esule ed emigrato di lusso subito introdotto a corte, in intimità con  Cavour e  D’Azeglio, allora presidente dei Ministri, apprezzato dallo stesso Vittorio Emanuele II. Qui Cordova, che aveva fatto esperienza di giornalismo a Palermo fondando e dirigendo  il giornale “La luce”, fu chiamato da Cavour a collaborarlo nel “Risorgimento” di cui aveva la direzione, che ben presto gli passò, e quando “Il Risorgimento” fu soppresso Cavour e Rattazzi vollero che Cordova dirigesse il nuovo giornale “Il Parlamento”, chiamandolo anche a far parte della Commissione Legislativa, in cui sembra abbia ispirato le leggi di costituzione del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti.

Fornì la carta topografica dell’Isola a Garibaldi in partenza per la spedizione in Sicilia con l’auspicio, scritto in calce, che il generale gliela restituisse a Palermo e quando l’Italia fu finalmente unificata egli rappresentò Siracusa, Caltanissetta e Caltagirone al Parlamento del Regno d’Italia; fu Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio,  per tre volte, nei Governi Ricasoli, rifiutò più volte di rientrare nei governi di Menabrèa e di Rattazzi, dov’era stato indicato per il Ministero delle Finanze,  per la delusione, forse, sui modi in cui veniva realizzata l’unità; lui che aveva, nel 1848,  abolito in Sicilia la tassa sul macinato avrebbe dovuto rendersi complice di un’altra altrettanto odiosa tassa, il dazio sulle farine, chiamata anche la “tassa sulla fame”  voluta fortemente da Quintino Sella e che per decenni vessò la popolazione più indigente scatenando ovunque rivolte. Cordova preferì, adducendo malanni più o meno gravi, non far parte più del Governo, il suo ultimo incarico pubblico fu la presidenza della Commissione d’inchiesta sul “costo forzoso”  che lasciò incompleta per la morte sopravvenuta il 16 settembre del 1868.

La figura che emerge, più che di un uomo di azione, è quella di un grande amministratore, legislatore, economista, di un politico lucido e lungimirante che ben presto si rese conto che stava nascendo una questione meridionale, come appare da un suo discorso alla Camera del 1863 (riportato nel libretto citato di Ranfaldi). Intervenne in difesa dei siciliani, che il generale Govone in un suo rapporto definiva barbari, con queste parole: “ Io credo che un governo, allorquando riceve un paese, non dalla conquista, ma dalla rivoluzione, debba domandare a sé stesso per quali bisogni questa rivoluzione si è fatta, che cosa voleva il popolo che si è sollevato.[……] Signori quando le popolazioni non si trovano soddisfatte di un ordine di cose resta sempre un germe di movimenti che possono produrre gravi pericoli. [……] Facciamo in modo che i Siciliani non abbiano mai a pensare all’altra rivoluzione: facciamo che questa provveda completamente ai loro bisogni”. Affermazioni che non hanno bisogno di commenti se non per sottolineare  la cecità di quanti, invece, continuarono a trattare le regioni del Sud come terra di conquista provocando guasti mai più sanati. 

Franca Ciantia