Dalla madre alla terra, dalla terra alla madre, dalla vita la morte, dalla morte la consapevolezza che la rinascita, se sarà, porterà con sé nuovi carichi e inevitabili sofferenze cui sono destinate le madri tutte. Il loro destino è un compiersi ciclico e puntuale che si disvela sul palco con canti corali di donne le cui tinte dei vestiti non mentono: di lutto è il color del nero che indossano, di purezza verginale il colore del bianco che esaltano; donne ataviche della terra, che cantano il dolore, generano la vita e pregano di non doverla veder perdere prima della loro. Fra queste, tre donne si espongono, e del dolore fatto di rinunce, sacrifici e silenzi dovuti, traggono forza per tessere un futuro migliore rendendosi esse stesse parola che rivela il mistero e la fragilità di partorire l’universo. Il canto e la parola si fondono per dar voce a chi, nel generare non ha perduto nulla del proprio corpo, e nulla riavrà al momento della morte; sono gli uomini che come spettri dietro a un velo che li separa dalla Madre origine del tutto, si rendono memoria di antiche Madri, con dei cunti e lamenti che seguono il ritmo del cardare la lana su di un bianco sudario.
E’ un ritorno nel passato remoto per risvegliare un presente assopito e ridare vigore a un futuro che può rivelarsi dimentico della forza della Madre- fonte di vita e rivelazione della morte – il lavoro di traduzione e adattamento teatrale attuato da Elisa Di Dio e Filippa Ilardo, su autori come Rilke, il cui decadentismo rafforza la nostalgia del passato; Levi, la cui spiritualità critica si rinnova laddove la coscienza della Madre emerge nelle tre donne protagoniste; Buttitta, presente con la forza del proprio dialetto; Bufalino, il cui linguaggio antico e atavico risuona nelle parole e nelle musiche; Esiodo, la cui forza del Mito emerge prepotente nell’espressione della Madre-Terra.
Livia D’Alotto
Photo (C) Maria Catalano