La prima “dottoressa” della storia della medicina italiana è Trotula, vissuta a Salerno nel Duecento. È una figura avvolta nella leggenda e molti dubitano della sua reale esistenza. Altri nomi di medichesse italiane del medioevo sono quelli di Rebecca Guarna, Costanza Calenda, Federica Vitale, Venturela Cisinato, Tomasia di Castro, Antonia di Daniello, Perla da Fano. Di esse sappiamo pochissimo. Qualche cosa di più, invece, risulta a proposito della siciliana Bella de Paija, ebrea.
I suoi pazienti le versano cospicui onorari e la gratificano, in segno di riguardo, dell’appellativo di “donna”. Intanto la sua maestria con il bisturi ha varcato i confini di Mineo, la piccola città dove Bella esercita la professione di chirurgo, ma senza la prescritta abilitazione. Fino a quando la regina Bianca di Sicilia stabilisce per decreto che la “dutturissa” può esercitare liberamente in quanto è stato comprovato che l’interessata ha praticato «cum sanitati di li pacienti». L’abilitazione d’ufficio si accompagna, poi, al privilegio di non pagare le tasse. È il 6 settembre 1414 e Bella de Paija entra così, ufficialmente, nella storia della sanità italiana.
Virdimura da Catania, uxor Pascalis de Medico, anch’essa ebrea, si è invece sottoposta, il 7 novembre 1376, alla prova di abilitazione, davanti a una commissione, composta da esperti di fiducia della corona e presieduta dal protomedico reale. La candidata, che ha studiato in casa, giunge all’esame accompagnata da una «lodabile fama» e sorprende gli esaminatori con una inedita dichiarazione d’intenti: dichiara, infatti, di volersi dedicare alla cura dei poveri «ai quali è difficile pagare gli immensi compensi richiesti da medici e da chirurghi».
Bella e Virdimura fanno parte della folta schiera di medici ebrei siciliani, presenti nell’Isola fra il ‘300 e il ‘400, in condizioni di quasi monopolio della professione. Si formano nelle università del “continente”, ma soprattutto frequentando, in Sicilia, gli studi di medici autorizzati. L’esame di abilitazione è, però, essenziale. La loro attività è documentata dal 1362, ma la loro presenza è senza dubbio più antica e risale al periodo dell’invasione araba, quando i conquistatori musulmani portano al loro seguito medici (che non sono della loro religione) specializzati nella “preparazione” degli eunuchi per gli harem.
Medici ebrei nell’Italia meridionale sono, peraltro, attivi fin dal decimo secolo: il primo di cui abbiamo notizia è Shabbetai Donnolo, nato nel 913 ad Oria, presso Brindisi. Per quanto riguarda, poi, l’accennato “monopolio” della professione: si tratta in realtà di un fenomeno che ha dimensioni europee e si ritiene sia in rapporto con il divieto per i religiosi di studiare medicina, sancito dal sinodo di Clermont nel 1130 e dal concilio di Reims nel 1131. Ai monaci, inoltre, le autorità ecclesiastiche hanno proibito l’esercizio dell’arte medica al di fuori dei conventi, insinuando anche il principio dell’immoralità di trarre profitti dalla cura dei malati.
Questo interessante panorama storico è la cornice dentro la quale Giuseppe Sicari, autore de “La kippà di Esculapio” (Pungitopo editore) ha racchiuso i nomi e le storie di duecento medici ebrei siciliani attivi tra il ‘300 e il ‘400, indicando anche i loro luoghi di residenza. Spicca, fra i tanti, la figura di Moyse Medici, nato a Messina nel 1395. Il suo nome era in realtà Moshe Hefez, probabilmente d’origine catalana. Il grande studioso dell’ebraismo siciliano, l’Inquisitore taorminese Giovanni Di Giovanni, lo definisce “rabbino della città di Messina” e ricorda che nel 1431 gli è concesso di curare anche pazienti cristiani. Moyse Medici, con l’autorevole commendatizia del viceré Giovanni d’Aragona, si reca nel 1416 a Padova e si addottora in quella università, ottenendo il titolo accademico di artium et medicine doctor che lo abilita anche all’insegnamento. Diventerà in seguito “giudice universale degli ebrei siciliani” e medico della casa reale.
Nell’elenco dei medici ebrei operanti in Sicilia nel ‘400 figurano ben quattro “licatesi”, sicuramente attivi fra il 1460 e il 1492. La loro “esistenza” è comprovata da documenti ufficiali di sicura autenticità, conservati all’Archivio di Stato di Palermo. Il primo è Farachi de Anello, appartenente a una delle più cospicue e potenti famiglie ebraiche di Licata e ucciso in circostanze misteriose nel 1460; segue Gabriele di La Medica il quale nel 1473 promuove un’azione legale nei confronti di un paziente che non ha pagato gli onorari dovuti; altra singolare figura è quella di Prospero Muczimecu, protagonista (nel 1492, al momento dell’espulsione) di una vicenda riguardante il possesso di una schiava saracena; Joshua ben Isaac Joel, il quarto della serie, è invece l’autore di una personale copia (in ebraico) di un famoso trattato di medicina realizzata dall’interessato nel 1484, proprio a Licata, come recita testualmente il colophon dell’opera oggi conservata alla Biblioteca di Stato di Berlino.
Nel corso della presentazione del libro “La kippà di Esculapio” saranno mostrate alcune riproduzioni di questo singolare e prezioso libro che lega il nome di Licata ad una delle più importanti testimonianze della cultura scientifica del Medio Evo.