Concetto Prestifilippo racconta di “Misteri buffi, confessioni del primo grillino pentito”

Siamo nati entrambi a Piazza Armerina. Non ci siamo mai frequentati. Esotiche eccentricità siciliane. L’incontro con l’onorevole Venturino è stato casuale, ma l’imprevedibilità è sempre foriera di sorprese. Estate 2012. Guadagno con inadatta frenesia metropolitana il corso principale del paese. Antonio Venturino, placido e indolente, troneggia nella piazza. Con fare cortese, mi annuncia la sua candidatura. Proterva la risposta: la politica non può prescindere dai partiti. Venturino mi congeda con uno sguardo sdegnato. Il resto è cronaca. L’elezione al Parlamento regionale siciliano, la carica di vicepresidente vicario dell’Ars, l’espulsione dal Movimento Cinque Stelle. Estate 2016. Antonio Venturino si muove con un’insolita frenesia metropolitana. Io, placido e indolente, troneggio nella piazza del paese. Ci rivediamo, dopo quattro anni, con frenesie e indolenze ribaltate. Al suo passaggio, una bordata invereconda di insulti. Per default mi schiero sempre con gli eccentrici. Lo invito al tavolo del caffè “Plutia”, il più centrale. Come in un film di Germi, tutti dovevano vederci. Il tono della conversazione, come questa nota, era quello di un serio divertissement.
Introduzione di Concetto Prestifilippo

Bizzarria della sorte, dopo quattro anni, Antonio Venturino era diventato un fermo assertore della centralità dei partiti. Animato da un irrefrenabile desiderio: denunciare il pericolo che si annida nell’antipolitica imperante. Era dunque venuto il momento di svelare, da dietro le quinte, il fenomeno del Movimento di Beppe Grillo. Il racconto che viene fuori da questa lunga conversazione è quello di un’insospettabile bugia mediatica. Una sorta di scenografia cinematografica buona per i campi lunghi. La mancanza assoluta di una struttura organizzativa. La sconcertante rivelazione di un finto efficientismo digitale. L’inedita mancanza di interlocuzione con i vertici del movimento. Il leader Beppe Grillo che comunica solo con una stretta cerchia di fedelissimi. La tanto agognata democrazia digitale si rivela, nelle dichiarazioni di Venturino, una sorta di organizzazione padronale. Altrettanto surreale appare il racconto del palazzo siciliano del potere. La carrellata dei personaggi evocati è di primo piano. Rivelazioni che riservano sorprendenti e clamorose verità. La mancata rivoluzione del governatore Rosario Crocetta. L’onnipresente senatore Beppe Lumia. Il potere dei Grand commis della burocrazia regionale. E poi, consoli americani, consiglieri del Pentagono, star televisive, fascismi digitali, inquietanti avvertimenti. Un dettato esplicito che consegna l’immagine di un Paese telestupefatto. L’Italia del movimentismo gridato è la nazione dei proclami della Lega, i riti delle ampolle, Pontida. La Penisola delle dirette dal tribunale di Milano, i giudici in copertina, il primo piano dell’ex potente con la bava alla bocca. Oggi è la patria della rabbia. Il Bel Paese di Beppe Grillo che guadagna a nuoto lo stretto di Messina. Il titolo “Misteri Buffi” è un ovvio rimando a Dario Fo. Venturino, nella prima parte della sua vita, è stato attore di teatro. Per anni, ha portato in scena lo spettacolo più noto dell’autore milanese. La recente scomparsa del grande attore lascia insoluto un dubbio. Venturino si stupisce della scelta di campo operata dal suo maestro. Si chiede come è stato possibile che il Premio Nobel non abbia temuto la pericolosa deriva dell’antipolitica grillina. Come abbia potuto avvalorare quello che lui definisce una sorta di inconsapevole fascismo digitale, quello delle manganellate da social network. Come non abbia temuto la violenza del linguaggio volgare e rancoroso, rumore di fondo del Movimento. Il dato incontrovertibile è che il movimento di Beppe Grillo incarna l’inappagato, storico, irrisolto malcontento italico. Da nord a sud. Alla prova dei fatti però, si rivela inadeguato e antidemocratico. Non c’è spazio per chi dissente dal capo. I tanti Pizzarotti e Venturino sono subito bollati come traditori, pericolosi controrivoluzionari, rinnegati alla Kautsky.

Doveroso il ringraziamento a Emanuele Pecheux, intellettuale raffinato e appassionato. C’è sempre un piemontese nelle cose di Sicilia. Come in una pagina di abusata sceneggiatura, seduto allo stesso tavolo del nostro caffè estivo, partecipava alla conversazione con sagacia sabauda e insospettata indolenza mediterranea. Volutamente, il libro rivela un tono lieve e un registro surreale. Come la storia che narra. Il luogo del riscontro è la Sicilia, ancora una volta metafora dell’Italia. A parlare è un pentito. Non svela però strutture inedite e inviolate. Rivela invece una complessità inesistente. È un racconto in prima persona. Una lunga intervista che non può essere confinata tra le pagine di un giornale. Un colloquio senza le classiche domanda e risposta. Il ritmo è sincopato, da giornale. Come ogni monologo interiore, presenta espressioni tipiche del linguaggio parlato e una scansione disordinata degli accadimenti.

Il mio interlocutore è un politico, un ex attore ed è siciliano. Ovvio quindi che nel suo racconto si possa annidare l’artificio politico, la finzione teatrale e l’opacità siciliana. Il sospetto iniziale, per il lettore, è che le dichiarazioni di Venturino siano frutto di revanchismo. Lo sfogo di chi è stato bollato di revisionismo. In realtà, l’intento è stato quello di indagare la realtà offline dei Cinque stelle. Fotografare, come bracconieri, il dietro le quinte della scenografia digitale del Movimento. Venturino consegna il ritratto di un’organizzazione vittima di una sorta di nevrosi paralizzante. Un movimento regolato da un antistorico Collettivismo oligarchico. Il ritratto di Antonio Venturino, alla fine di questa lunga conversazione, diverge da quello della narrazione cronachistica. Non è il guitto di teatro che si ritrova, per caso, nel luogo del potere. È un cronista che si aggira dietro le quinte del teatro della politica con curiosità. Questo libretto è un prontuario senza pretese. È dedicato in particolar modo ai giovani lettori. Quelli infervorati, pochi. Soprattutto ai disillusi, tanti. Forse, gioverà ricordare loro l’insegnamento di Pietro Nenni. Il vecchio socialista esortava a dedicarsi alla politica con adeguato distacco dai sentimenti ma, soprattutto, senza il pericoloso ricorso ai risentimenti. La conclusione è che il potere è sempre altrove. Come ammoniva, con lucida disperazione, Leonardo Sciascia. Così come emerge un tratto caratteristico tutto italiano, quello del continuo ricorso ai piccoli ducetti. A quaranta anni dal monito inascoltato di Pasolini, l’Italia è ancora un Paese senza memoria che continua a calpestare le parole del poeta, come ha fatto con il suo corpo:

«Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale».

(Pasolini, “Scritti Corsari”, 1975)
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