Leonforte. L’università popolare lunedì pomeriggio ha accolto i liceali

Leonforte. La buona scuola è fatta di studenti, che ascoltando i testimoni di Storia e storie diventano a loro volta testimoni di Storia e storie. Così è stato all’università popolare lunedì. Il professore Nigrelli ha raccontato la chiesa Madre di Leonforte, la professoressa Giovanna Maria ha inaugurato lo spazio del dialetto coadiuvata dalle tante che alla parola “mmidia” hanno elencato detti, proverbi e cunti e un gruppo di liceali ha ascoltato, apprendendo divertendosi. La lezione ha proseguito il discorso sulle bellezze della chiesa San Giovanni Battista a partire dall’iscrizione che sormonta il portone centrale. La chiesa è dedicata al precursore del Divino Verbo e la testa decapitata ne è testimonianza plastica così come la dedica ne è completamento. L’iscrizione incisa su una lastra di marmo posta nel frontone spezzato della porta centrale recita: “ D.(eo) O.(ptimo) M.(assimo) A Dio Ottimo Massimo. Questa chiesa del precursore del Divino Verbo, già piccolo tempio da circa otto lustri, mentre anche la città era piccola, eresse e dedicò, per la grande devozione versi il santo-del quale nessuno (è) più grande tra i nati di donna-sotto lo stesso nome, Donna Caterina Branciforti, Principessa di Leonforte, moglie di Don Placido Branciforti, il quale la fabbricò dalle fondamenta nell’attuale forma, elegantemente e splendidamente, e la condusse a termine nell’anno della Redenzione 1659.
Sulla data si è molto detto. Le date spesso coincidono con la volontà di aumentare la storia nell’accumulo di anni e tacciono sui decenni che occorrono per costruire e portare a termine un monumento nella forma definitiva. Molto pure si è detto sul marmo della cava di San Giovanni e sulla pavimentazione non originale. Molto ancora si dirà perché molto c’è da conoscere. Un aneddoto fra le date e i nomi ha incuriosito parecchio gli ascoltatori: la disputa nel 1902 sulla nomina dell’arciprete inviso al conte di Branciforti. In quel tempo il conte esercitava il diritto di veto sulla scelta dei prelati essendone fondatore per eredità di titolo. La disputa pose il potere spirituale contro quello temporale per ovvie ragioni di interesse facendo del Vitanza l’arciprete dei tre giorni. Tre giorni infatti durò la sua carica. Gelosie e mediocrità indussero i preti delle altre chiese a sostenere i dubbi del conte sul titolato Vitanza, nominato senza il placet del palazzo. Il Vitanza era “troppo” per un paese abituato al “c’era una volta Gesù” le sue parole risultavano eretiche, insinuanti e fastidiose. Oggi certo le cose sono mutate e un Vitanza portatore di dubbi e incertezze verrebbe accolto con lodi e esultanza.

Gabriella Grasso