Aidone. Una cartolina giunge a destinazione, dopo solo 76 anni!

Una cartolina attraversa la storia e giunge a destinazione solo dopo 76 anni, e qui riapre una storia i cui protagonisti purtroppo non sono più qui a raccontarcela: resta un vuoto, tante domande senza risposte, scampoli di ricordi che possono in qualche modo mettere insieme una piccola storia.

4 dicembre 1943, da un campo di prigionia della Germania nazista parte una cartolina in cui mio padre, allora ventiduenne, comunica alla famiglia di essere prigioniero in Germania e di stare bene; si trova nello Stalag VIII B. Scoprirò dopo che in effetti si trova in Polonia. Aggiunge il suo rango di Militare Italiano Internato e il Distaccamento 25424/1B. La cartolina non arrivò mai a destinazione in Aidone e per quattro lunghi anni (probabilmente l’ultimo anno della guerra d’Albania più quelli della prigionia dal 1943 al ’45) la sua famiglia non saprà nulla del suo destino, al punto di crederlo morto. Dalla cartolina apprendo anche che era già avvenuta il cambiamento di stato da Prigioniero a Militare Internato, l’escamotage che i tedeschi avevano trovato per togliere ai detenuti quei pochi diritti garantiti dalla Convenzione di Ginevra ai “prigionieri di guerra”. Era la punizione per il “tradimento” perpetuato dagli italiani con la firma dell’armistizio dell’otto settembre del 43.

Mio padre morì giovane nel 1960, la più grande dei quattro figli ero io ed avevo appena sette anni, troppo pochi per averne anche un ricordo chiaro e definito, mi restano pochi semplici flash legati a momenti particolari. Lui non parlò mai a mia madre, sposata nel 1951, di quella terribile esperienza che non solo lui ma la stessa storia ufficiale dell’Italia aveva voluto seppellire! Eppure aveva coinvolto oltre oltre 600.000 militari italiani rastrellati dai vari scenari di guerra, soprattutto dai Balcani, e abbandonati nelle mani di quelli che ancora da Mussolini venivano considerato alleati. Di questi oltre 50.000 non tornarono a casa, morti per vari motivi tra cui la durezza delle condizioni di vita cui furono sottoposti.

La cartolina partì ma la situazione dell’Italia Settentrionale in quel tempo era molto critica, molta posta restava inevasa nelle stazioni e negli uffici postali, se ne persero le tracce. Ad un mio amico con pallino del collezionismo, soprattutto di vecchie cartoline, arrivò tra le mani questa cartolina, i suoi colleghi collezionisti sapevano che qualunque cosa avesse a che fare con Aidone suscitava la sua brama per cui chi la trovò non esitò a regalargliela. Lui che ama ancora il suo paesello, pur abitando da decenni in Lombardia, qualche giorno fa l’ha portata a mio fratello: immensa è stata la commozione di trovarsi tra le mani questo messaggio che arrivava da altri tempi e altri mondi. Non lo ringrazierò mai abbastanza! Mi ha spinto da una parte a indagare il fenomeno storico che avevo trovato, meno che di sfuggita, citato nei libri di storia, e dall’altra a cercare tra i pochissimi parenti superstiti chi potesse raccontarmi i ricordi di quella giornata, in cui mio padre si presentò alla porta di casa lacero, emaciato, sfinito dal lunghissimo viaggio dalla Germania al cuore della Sicilia, fatto in gran parte a piedi. Quando, finita la guerra, furono finalmente liberati, l’esodo dei Militari Internati, gli M.I., superstiti, verso l’Italia e poi verso i loro luoghi di origine si protrasse dall’estate del 1945 a gran parte del 1946.

Non so esattamente quando mio padre tornò. Dai ricordi delle due sorelle, allora molto giovani, ho ricostruito che la sua prima tappa nel ritorno fu Piazza Armerina, forse vi era giunto con il treno. Prima di intraprende l’ultima marcia per Aidone si presentò ai parenti di Piazza Armerina, da dove era originario suo padre. Se lo videro arrivare davanti sporco e lacero, ma vivo, anzi redivivo, e fu una grande festa per quella numerosa famiglia che si tolse letteralmente il pane di bocca per ristorarlo e fargli festa, mentre tutti continuavano ad abbracciarlo per assicurarsi che non fosse un sogno. A piedi arrivò a casa, in Aidone. Per i famigliari fu come vedere un fantasma, stentavano a crederci! Le grida di incredulità e di gioia richiamarono tutti i vicini e fu una festa collettiva. Una delle due zie mi racconta un episodio che le restò impresso. Tutti i vicini, in un momento in cui era difficilissimo procurarsi generi alimentari, contribuirono come poterono ad allestire un banchetto degno del grande evento; mio padre mi viene descritto da quanti lo conobbero come una persona amabile e tutti erano stati felici di vederlo vivo. Mentre alcune impastavano e assottigliavano i maccheroni, una delle vicine, la zzà Mariuzza, si offrì di preparare il ragù di coniglio. Mangiarono e fecero festa. Quando un’altra vicina cominciò a chiamare inutilmente il suo gatto, lo sguardo di tutti andò alla zzà Mariuzza che se la rideva sotto i baffi!

Avrei tante domande da fare a mio padre, ma ormai anche la maggioranza dei suoi coetanei sono scomparsi e tutto è quindi destinato a restare vago e insoluto. Ho letto tanto in questi giorni sui campi di prigionia tedeschi, delle condizioni disumane in cui i cosiddetti internati vivevano, soffrendo la fame, il freddo e ogni tipo di angheria. Mi si stringe il cuore a leggere queste cose ma ciò che mi fa particolarmente male è la coltre di polvere sotto la quale è stata sepolta una così grande sofferenza. Venne quasi ritenuta una tragedia di cui vergognarsi; sia il nuovo Stato che gli stessi reduci erano uniti da un sentimento di rifiuto e vergogna e dalla volontà di dimenticare. Molto pesò, sopratutto nei primi decenni postbellici il giudizio dato dalla Resistenza. Come scrive Deborah Paci nel dossier “Internati Militari Italiani dopo l’8 settembre 1943 -Testimonianze di siciliani nei campi nazisti”: “La Resistenza diede un giudizio morale definitivo sugli Internati Militari Italiani, qualificandoli come il “disciolto esercito regio” ovvero “gli ex alleati del nemico”, una pagina di storia da ripudiare. Per i fascisti, come pure per i tedeschi, gli IMI non furono null’altro che traditori.

Il disinteresse mostrato da larga parte della storiografia italiana per parecchi anni – fatte salve le dovute eccezioni – è indice della reticenza nel formulare un giudizio storico su vicende che implicavano la messa in discussione dell’opposizione fascismo-antifascismo”
e ancora “La memoria degli IMI non ha mai implicato il coinvolgimento di parti politiche, diversamente dalla memoria della lotta partigiana che ha mantenuto forti legami con i gruppi sociali e politici d’appartenenza. A questo si aggiunga che la memoria dell’internamento è stata associata, nell’opinione comune, a quella dell’8 settembre 1943, ovvero il giorno della resa da parte dello Stato monarchico e della dissoluzione dell’esercito”.

La Rete è immensa e finalmente vi ho pescato la testimonianza di un soldato veneto, anche lui prigioniero nello Stalag VIII, Rino Bertin, classe 1922 che a proposito dell’arrivo nel capo dice:“… partenza e attraversamento di tutta la Polonia con destinazione Friedenschütte (a quel tempo le località ed i paesi avevano tutti nome tedesco), in provincia di Katowice, campo di lavoro Stanlager, VIII B O/S I-T5. È superfluo ricordare che ad accoglierci c’erano le nuove milizie, sempre S.S., che ci presero in consegna. Da quel momento noi eravamo soltanto un numero. La mia targhetta portava il n° 25619quella di mio padre era 25424! Leggere questa testimonianza che il Bertin, spinto dai famigliari, ha reso nel 2004 a Bruno Savin, un ricercatore e appassionato custode della memoria storica del suo paese, mi ha permesso di ricostruire in qualche modo la memoria degli anni che mio padre trascorse in guerra, dalla lettera di precetto, agli anni della guerra, alla prigionia e al problematico ritorno. Ben misero conforto, ma è l’unico modo per riappropriarci in qualche modo degli anni giovanili di mio padre che, con la sua inattesa dipartita, non ebbe mai la possibilità di raccontarci. Mi rigiro tra le mani la cartolina, è pesante, gronda del dolore di chi scriveva e di chi non l’ha mai ricevuta, continua a raccontarci uno dei momenti più cupi della storia d’Italia, dei tanti giovani ignari partiti per una guerra che non avevano deciso loro e per luoghi che non immaginavano neppure che esistessero, divenuti da un giorno all’altro nemici degli alleati del giorno prima, posti davanti a scelte di cui forse non capivano la gravità, caricati in carri bestiame con i pochi abiti estivi che possedevano, trasportati su fetide carrozze per lunghi giorni verso fino all’amara scoperta della destinazione finale, il campo di prigionia nella freddissima Polonia, dove sopravvissero tra indicibili sofferenze ancora più di due anni!

Franca Ciantia