Cerami. Memorie di pietra da difendere e valorizzare

Sull’abitato di Cerami svetta imponente, a 1050m. s.l.m., un’immensa mole rocciosa sagomata a forma di leone accovacciato. Così si mostra la visuale dell’antico castello a chi da Troina giunge a Cerami, con tutta la sua maestosità superba a voler probabilmente, quand’era integro, incutere un certo timore in chi, nei secoli passati, si avvicinasse al paese da fondovalle.

Le più antiche tracce del maniero attestano uno dei più insigni esempi di fortezza arcaica caratterizzata da un alveare di grotte rupestri scavate nella roccia, sì da far supporre allo storiografo Giovanni Paternò Castello un insediamento abitato dai primi Sicani (XIII secolo a.c.). Senza dubbio, col passar dei secoli, il nucleo originario della roccaforte fu allargato e ampliato. Come testimoniato da alcuni frammenti storiografici, ebbe a incorporare per esigenze bellico-difensive un susseguirsi di sovrapposte costruzioni, di bastioni verosimilmente di epoca greca, romana, bizantina, araba, fino alla rinforzata consistenza del periodo normanno, chiaramente identificabile, poi rimaneggiata e sviluppata a dimora regale della generazione dei Principi Rosso, che dal 1396 fino al XIX sec. amministrarono il paese.
Il castello, quantunque caduto in rovina, rimane uno dei monumenti più rappresentativi della città di Cerami, dal greco keramos. Attraverso le sue residue tracce si può capire e idealmente ricostruire il legame con la storia, con i fasti remoti della cittadina ceramese, da quando all’interno dell’antico maniero pulsava il cuore della “civitas”, la fierezza di un borgo medievale divenuto famoso per la memorabile battaglia (detta appunto di Cerami), combattuta nel 1063, che segnò la sconfitta dei saraceni. Allora, le truppe normanne, asserragliate nell’espugnabile castello, dal cui culmine era possibile sorvegliare il territorio e avvistare il muoversi dei nemici, annientarono sotto l’abile comando di Roberto il Guiscardo, con l’aiuto di Ruggero, futuro Gran Conte, e l’intervento eroico del nipote Sarlone (o Serlone), l’esercito saraceno, strappando la Sicilia dal possesso dei musulmani. Da lì in poi il passo fu facile e breve per riconsegnare l’intera Trinacria al culto cristiano e all’obbedienza alla Chiesa romana.
Delle fortificazioni, delle magnifiche sale, delle cinta murarie e dei portali d’ingresso del glorioso castello, oggi non restano che pochi frammenti scampati ai terremoti, ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, all’usura delle intemperie, all’incontrollato saccheggio e smantellamento delle parti utilizzabili (pietre, arcate, portali, ecc.). Completamente distrutta, con i suoi affreschi, la cappella palatina eretta tra le mura della roccaforte in onore di S. Giorgio.

Fatta eccezione di qualche sporadico intervento (vedi lavori BB.CC.AA. di Enna progettati dall’arch. Carmelo Distefano, perizia n. 25 del 3.11.93), per decenni e decenni, sotto lo sguardo indifferente e il disinteresse generale, sull’antica fortezza la desolazione è stata assoluta.
Di recente, con il finanziamento di circa 90 mila euro del Ministero dell’Interno e del Dipartimento della Protezione civile, si son potuti eseguire due lotti di lavori di somma urgenza e restauro di alcuni sovrastanti parapetti murari che, in condizioni di avanzato degrado, minacciavano un nucleo di case sottostanti alla cinta del castello.
Le fasi di intervento edilizio, elaborate dal giovane architetto, Gian Antonio Lo Guzzo hanno riguardato le ricostruzioni perimetrali esterne del lato Ovest e del versante Nord.
Nella necessità di rispettare le strutture superstiti, il tecnico progettista si è avvalso, sotto la sorveglianza della Soprintendenza, di particolari intelligenti accorgimenti costruttivi, tra cui: la rimozione di ferri, perni ed erbe infestanti che ne compromettevano le connessure, il fissaggio e consolidamento degli elementi lapidei distaccati o fratturati. I materiali utilizzati sono quelli ottenuti dal recupero degli elementi di crollo, vagliati e minuziosamente selezionati.
Lo scampolo di opere di restauro sembra aver eccitato la sospirata la volontà di salvaguardare il “venerando e pittoresco” castello, il cui valore architettonico storico culturale, aggiunto alla sbalorditiva scoperta archeoastronomica recentemente venuta alla luce, è fuori discussione.
Perdere un simile bene sarebbe davvero un peccato. Delittuoso lasciare andare in malora un simile tesoro, ignorando il rispetto dovuto al passato, rinunciando a frammenti di identità e memoria legate alla cittadina.
Nella prospettiva servirebbe una progettualità organica e operativa attraverso cui definire, sulla base delle risorse da cercate e ottenere, interventi completi di tutela e riqualificazione dell’antico fortilizio.

E’ ora che chi di competenza si rimbocchi le maniche.
Il carattere strategico di questa operazione, oltre alla promozione economico occupazionale, conseguirebbe la fruibilità del bene storico monumentale, da rilanciare in termini di richiamo turistico, a funzione accogliente di spettacoli all’aperto e manifestazioni culturali di varia natura.
Un castello dunque che possa non solo sopravvivere, ma che possa vivere, incrementando la vitalità economica e sociale del paese.

Carmelo Loibiso