Aidone. La Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Giovanni Ciancio fu vittima di usura”

Aidone. “Giovanni Ciancio fu vittima di usura”: la Seziona Penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna inflitta dalla Corte di Appello di Caltanissetta ad un imprenditore agricolo piazzese per avere perpetrato il reato di usura ai danni dell’imprenditore aidonese, deceduto nel marzo 2008. La Suprema Corte, ad esito della pubblica udienza del 5 marzo 2021, ha, infatti, rigettato il ricorso proposto dall’imputato Guido Marino, avverso la sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta. Diventa così definitiva la condanna a 3 anni di reclusione, € 6.000,00 di multa, 2 anni di interdizione dai pubblici uffici e 1 anno di incapacità di contrarre con la PA, oltre al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite. Nel 2019 la Corte di Appello di Caltanissetta aveva riformato la sentenza di I grado e riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato. I giudici di appello avevano, infatti, riconosciuto che il signor Ciancio fosse stato vittima del reato di usura. Nel 2006, Ciancio, pressato dallo stato di bisogno, impossibilitato ad accedere al credito bancario, si era visto costretto ad accettare un prestito ad un tasso pari al 120% annuo vedendo così in pochi mesi lievitare a dismisura l’importo iniziale del prestito chiesto a Marino. A fronte del prestito di € 24.500,00 Ciancio, su richiesta di Marino, gli consegnò assegni postali non intestati e con importo inclusivo di sorte capitale più interessi del 10% mensile, con scadenza a 2-3 mesi. Impossibilitato a restituire il prestito alle varie scadenze, l’imprenditore aidonese ritirava i titoli e ne riconsegnava nuovi con importi ulteriormente maggioranti del 10%. Con tale meccanismo di rinnovo, nel giro di 7 mesi, il debito era lievitato da € 24.500,00 a € 49.000,00. A quel punto Ciancio si rifiutò di rinnovare gli assegni e propose a Marino di concordare, insieme ad un legale, un piano di rientro del debito originario. Marino rifiutò e, piuttosto, notificò un precetto esigendo € 51.234,44 per sorte capitale, interessi e spese legali. Nell’ottobre 2007 Ciancio decise, quindi, di denunciare tutto alla Procura della Repubblica di Enna. Veniva però a mancare prima ancora che iniziasse il processo. I figli e la moglie, con determinazione, hanno portato avanti le accuse del loro congiunto, si sono costituiti parte civile, assistiti dagli avv.ti del Foro di Catania Gabriella Gangi, Corrado Adernò e Pinella Pistone; non hanno ceduto di fronte all’inaspettato esito del giudizio di primo grado quando il Tribunale di Enna aveva assolto l’imputato per insufficienza di prove. Dopo la pronuncia della Corte di Appello, adesso, arriva il verdetto della Corte di Cassazione: il signor Giovanni Ciancio fu vittima di usura. Grande la soddisfazione dei legali delle parti civili e dei familiari della persona offesa. Queste le dichiarazioni dei figli di Ciancio, Patrizia, Calogero, Marco e Maria Lorenza una volta appresa la decisione della Corte di Cassazione: “Il motivo per cui abbiamo deciso con perseveranza e determinazione di portare avanti un processo insidioso lungo ben 13 anni è da ricercare esclusivamente nel “diritto alla verità” che spettava a nostro padre; la sofferenza che ebbe a patire a causa del deprecabile reato di cui fu vittima imponeva che fosse fatta giustizia. Per 13 lunghissimi anni abbiamo combattuto strenuamente per la verità e la giustizia, sostenuti -anche umanamente- dai nostri avvocati. Oggi ci è finalmente concesso un sospiro di sollievo e siamo certi che nostro padre sarà soddisfatto perché giustizia è stata fatta”.

Angela Rita Palermo