Origine delle aree interne siciliane in difficoltà di sviluppo

Per il lungo periodo che va dall’Unità d’Italia fino alla seconda guerra mondiale il dualismo nello sviluppo economico italiano era visto prevalentemente come un dualismo settoriale e territoriale, una contrapposizione tra un Sud arretrato e agricolo e Nord sviluppato e industrializzato. I dati sul bilancio del Ministero dei lavori pubblici relativi al periodo 1862 – 1924 riportati da Leandra D’Antone nella sua relazione “Infrastrutture per l’Italia 1861-2011” presentata al Convegno Svimez “Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia” nel mese di maggio del 2011, indicano una distribuzione equilibrata della spesa per la realizzazione di opere pubbliche nel Nord, Centro e Sud. Per le opere stradali, ad esempio, su pagamenti per £ 1.087.700.419,29, andarono all’Italia settentrionale £ 173.460.653,42, all’Italia centrale £ 148.689.299,80 e all’Italia meridionale e isole £ 752.915.1014,11. Equilibrata anche ripartizione della spesa per le opere ferroviarie. Meno equilibrata a sfavore del Sud rispetto al Nord la ripartizione della spesa per le opere idrauliche e le bonifiche. D’Antone indica nella prima guerra mondiale e nelle sue conseguenze il vero punto di rottura nella crescita delle regioni meridionali. Tra le due guerre le distanze in termini di Pil tra le regioni del Centro-Nord e del Sud si accentuarono. Dal 1951 ai primi anni ’70, si riduce di molto il divario del Pil tra il Centro-Nord e il Sud d’Italia. In quegli anni il Sud, grazie anche agli interventi straordinari per infrastrutture della Cassa del Mezzogiorno, partecipa al miracolo economico. Conclusa la fase del potenziamento infrastrutturale, le politiche di sostegno allo sviluppo cambiarono negli anni settanta-ottanta contribuendo ad aggravare il divario infrastrutturale tra il Nord e il Sud. L’Iri indirizzò verso il Nord i suoi investimenti in materia infrastrutturale mentre al Sud agì in senso industriale provocando il tracollo delle attività agricole e delle attività manifatturiere tradizionali. Sono gli anni in cui il Sud non è più visto come una realtà omogenea arretrata e a prevalente economia agricola, ma come un vasto territorio ancora agricolo articolato in zone di polpa e zone di osso di cui parlava Manlio Rossi Doria. In questa contrapposizione si intravedono già le aree interne contrapposte alla zone costiere. Il processo di differenziane territoriale, per effetto delle politiche di intervento nell’economia siciliana (crescita dell’occupazione nel terziario pubblico, erogazioni di sussidi alle famiglie e alle imprese, insediamenti industriali ad alto tasso di capitale a Gela, Augusta, Milazzo), conduce alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 ad un’articolazione territoriale più complessa in cui di Sicilie non ce ne sono due ma cinque: le aree dei poli di sviluppo industriale dove la grande industria ha distrutto le precedenti attività manifatturiere tradizionali senza determinare la nascita di nuove industrie se non nelle attività edili; le grandi concentrazioni urbane (Messina, Catania e Palermo), che sono aree di attrazione relativa e non assoluta di popolazione perché anche da queste città la gente emigra; la zona di sviluppo delle aziende agricole capitalistiche altamente produttive e specializzate (Piana di Catania); le aree di piccola proprietà contadina efficiente (colture in serra e coltura specializzata delle vite in provincia di Ragusa); le aree interne dell’emarginazione e di espulsione di popolazione e di emigrazione lontane dai centri urbani dove sono concentrati servizi essenziali come sanità e istruzione e con gravi deficit infrastrutturali. (AA VV “Le cinque Sicilie. Disgregazione territoriale e degradazione del lavoro in un ‘economia assistita” a cura di Raimondo Catanzaro). Rientra nella definizione di questo quinto tipo di area il territorio ennese e del versante meridionale dei Nebrodi.

Silvano Privitera