25 Novembre. Come ogni anno si celebra la giornata contro la violenza sulle donne. Una giornata che, come tutte le altre giornate internazionali, nazionali, interplanetarie ecc. ecc., rappresenta il culmine dell’ipocrisia di una società che si lava la coscienza ricordando le vittime e, utilizzando la parola maestra di questa ipocrisia collettiva, “sensibilizzando”.
Parola che, se usata in maniera corretta potrebbe anche funzionare, ma stiamo parlando della nostra società e la parola “sensibilizzazione” è legata ad una panchina rossa, a qualche ghirigoro per le vie cittadine e, proprio al culmine di questo grande processo di sensibilizzazione, alla presentazione di qualche libro strappalacrime. Cose che, comunque, possono essere lodevoli se spogliati dal termine di sensibilizzazione ma che al contrario hanno un non so che di vomitevole perché si vuole legare il proprio “prestigio” personale sulle tragedie. Ma tanto viviamo in un’epoca in cui si vive d’apparenza e, quindi, il prestigio assurgerà a vette sublimi comunque grazie al pubblico plaudente perché ammaestrato e il 26 novembre chi si è visto si è visto. Chissà, poi, quante donne si salveranno grazie ad una panchina rossa, ad un abbellimento cittadino o ad un libro strappalacrime? Magari un uomo che deve fare violenza ad una donna si fermerà dinnanzi ad una panchina rossa, un abbellimento cittadino o un libro strappalacrime dicendo “sono rinsavito, sono una bestia, grazie a chi ha dipinto quella panchina”? Capite bene che chi pensa questa cosa è in malafede e nulla sta facendo per le donne. E il fare qualcosa gridando ai quattro venti (sempre nell’ottica del “prestigio” personale) che è fatto per una buona causa (il “prestigiometro” arriva alle stelle) quando in realtà non serve a nulla è uno schiaffo a quella buona causa vergognoso e vomitevole. Ma, quindi, vi chiederete voi: non dobbiamo fare nulla? Assolutamente no! Dobbiamo arrivare all’arrosto togliendogli il fumo. Soprattutto nelle nostre piccole realtà dove tutti ci conosciamo sarebbe opportuno, dato che una delle prime cause per cui una donna non fa una denuncia è per “l’occhio della gente”, è abbassare la cresta del “prestigiometro”. In una società in cui è importante apparire, una donna sta in silenzio dinnanzi alle violenze perché ha paura di mostrare debolezza dinnanzi alle altre donne che, magari anche subiscono violenza, mostrano una vita che vogliono far apparire perfetta. Meglio subire violenza in silenzio che mostrare debolezza all’esterno perché sennò si è “la sventurata”, quella della “mala sorte”, quella “poverina” a cui indirizzare la pena (e in una società in cui vige la regola aurea del “meglio invidia che pietà” come ci si può mostrare deboli?). In una società in cui la felicità si misura con il peso aureo della collana indossata, la marca della borsa mostrata, l’appartenenza al giro che “conta” (dove bisogna mostrare il marito e la prole praticamente perfetta altrimenti il curtigghiu, sport olimpionico nostrano, sale alle stelle), come può una donna che subisce violenza mostrare vesti laceri, tumefazioni, travagli interiori? Li maschera e va avanti fino a che non si compie la tragedia. Ma mettiamo il caso che vi sia qualcuno non schiavo dell’apparenza, una donna subisce violenza per paura. Non denuncia perché sa che la lentezza della giustizia (oltre agli oneri delle prove non sempre dimostrabili) può portare a violenze ben peggiori nel lasso di tempo in cui si potrebbe vedere uno spiraglio di luce.
Alain Calò