Aphrodite Morgantina. On.Pagano: “Ennesimo spot per il governo regionale”

L’on. Alessandro Pagano, componente della Commissione finanze della Camera, a margine del convegno “L’Aphrodite di Morgantina” svoltosi presso la Camera dei Deputati alla presenza del sen. Francesco Rutelli, degli on. Rocco Buttiglione e Fabio Granata e del prof. Vittorio Sgarbi, ha così commentato: «Oltre alle tradizionali attività industriali e commerciali, una importante opportunità di sviluppo per l’economia siciliana è indubbiamente rappresentata dal suo prezioso e inestimabile patrimonio artistico e culturale, di cui è tornata a far parte la Venere di Morgantina dopo un contenzioso, durato ben vent’anni, che ha accertato l’indebita appropriazione di questo capolavoro dell’antichità da parte del Paul Getty Museum».
«Purtroppo – continua Pagano – il rientro della Venere si è trasformato in una ghiotta occasione per l’attuale governo regionale per mettere in scena l’ennesimo spot elettorale a suo favore, benché non avesse avuto alcun ruolo attivo nelle trattative con gli Stati Uniti per la restituzione dell’opera d’arte, in quanto la più significativa svolta del contenzioso risale al 2005».
«Per il bene della Sicilia e dei siciliani, – conclude – è venuto il momento di deporre le armi della demagogia e di pianificare un serio e attento programma di rilancio del ‘turismo culturale’ attraverso la nascita di nuove e idonee strutture che consentano la fruizione, durante tutto l’anno, del ricco e impareggiabile patrimonio artistico della nostra regione».


L’intervento del Col. CC. Vito Andrea Iannizzotto su “La vera storia della Afrodite di Morgantina” presso la sala delle conferenze di palazzo Marini organizzato da Extroart di Palermo:

“…Quella statua è lì, in un salone di dieci metri per dieci, che troneggia con un bel cartello che ne indica l’origine e l’importanza…”.
Così raccontai al mio ritorno da Los Angeles nel lontano maggio 1992.
L’avevo inseguita per quattro anni, fino a trovarla e poi raggiungerla.
Dalla descrizione avuta, l’avevo immaginata maestosa, importante, ma quando vi fui vicino e la vidi in tutto il suo splendore, in quella cornice degna di una Dea, e tentai di sfiorarla, la mano cominciò a tremarmi.
Era così bella, così reale e viva, che la fantasia mi fece notare un sorriso in quel viso dallo sguardo altero e mi dissi: «È contenta perché sa che la riporterò a casa».
E l’avrei riportata, in quella occasione o subito dopo, se le avversità incontrate non me l’avessero impedito.
L’ho seguita col pensiero negli anni a venire e le ho dedicato conferenze e convegni per illustrarne la bellezza e l’importanza.
Seguendo da lontano, ed in silenzio, le ultime vicende che riguardano il ritorno in Patria del prezioso reperto – in alcune circostanze ho osato dire della “mia” statua – debbo però osservare con amarezza che bisogna accettare passivamente le partite di potere giocate attorno ad un bene culturale recuperato.
Da questa ultima considerazione discende l’aver accettato di buon grado l’invito rivoltomi da una delle più ragguardevoli Istituzioni – certamente la più importante in Sicilia – preposta alla valorizzazione dei beni culturali ed alla ricerca di importanti opere sottratte alla Comunità.
Mi riferisco alla ExtroArt di Palermo ed al suo Fondatore e Presidente – l’architetto Ludovico Gippetto – che ringrazio sentitamente per avermi offerto questa occasione e spero di potere esprimere in breve e sinteticamente “la vera storia dell’Afrodite di Morgantina”.
Dico “la vera storia” perché le imprecisioni pubblicate da molti giornali e l’ignoranza di taluni uomini di potere mi hanno talmente amareggiato che avevo deciso di non volerne più sentir parlare.
In premessa, mi piacerebbe soffermarmi sulle origini e sulla storia di Morgantina, portata alla luce nel 1955 da studiosi americani autorizzati dalla Regione Siciliana ad effettuare ricerche archeologiche, ma per brevità di tempo debbo limitarmi ad un breve cenno.
Il territorio di riferimento è costituito dalla grande Agorà di Morgantina e dalle campagne circostanti situate sui Monti Erei, che dividono il versante orientale da quello meridionale della Sicilia, in agro di Aidone in provincia di Enna, vicino alla più nota Piazza Armerina, di epoca più tarda.
Antica e fiorente città prosperata fra il IX e l’inizio del III Secolo a. C. (quando fu distrutta dai Romani perché si era alleata coi Cartaginesi), Morgantina costituiva il più grande centro commerciale dell’entroterra siciliano collegato ai porti di Kamarina (ora periferia di Scoglitti in agro di Vittoria) e Gela (poi Terranova ed in seguito nuovamente Gela), in quel territorio in cui gli antichi Sicani e Siculi, e poi anche i Sicelioti, si contendevano gli spazi.
Si tratta di tre fra i più antichi e consistenti insediamenti della civiltà ellenica che vivranno poi alterne vicende che vanno dalle guerre puniche alla conquista dei Romani ed infine alla totale distruzione.
Territorio, quindi, con sottosuolo e fondali marini costellati di ogni forma di ricchezza antica che va dalle rarissime monete delle varie civiltà affacciatesi sul Mediterraneo alle statue, ai relitti di navi affondate ed ai loro carichi.
Oggetto di devastazione da sempre, si cominciò a parlare sulla stampa nazionale di questo sito a metà del 1988 allorquando la Soprintendenza archeologica di Agrigento – dalla quale allora dipendeva – ci segnalò di aver appreso informalmente da uno degli studiosi americani prima citati che il museo californiano “Paul Getty” aveva in corso trattative per l’acquisto di una statua di grandissimo interesse artistico e storico di probabile provenienza da scavi clandestini nella nostra area archeologica; statua che dalla descrizione avuta era proprio quella che egli aveva cercata invano in quel sito sin dal 1955 ritenendone colà l’esistenza attraverso i suoi studi.
Per inciso, a seguito dei fatti in narrazione, su nostra proposta venne costituita la Soprintendenza di Enna, alla quale fu assegnata una giovane e valente funzionaria col precipuo compito di sovrintendere ai lavori di tutela e valorizzazione dell’area archeologica di Morgantina e fu realizzato un nostro Nucleo distaccato a Palermo, sull’esempio del quale vennero poi istituiti molti altri in varie località nazionali.
In questo contesto si intrecciano diversi ingarbugliatissimi episodi, dai quali trae origine una vastissima indagine internazionale per uno dei più consistenti traffici di reperti archeologici di eccezionale importanza storica, provenienti da scavi clandestini ed esportati all’estero.
Elencarli tutti richiederebbe però molto tempo
Mi piacerebbe raccontare almeno gli sviluppi della complessa indagine durata quattro anni; ma per brevità di tempo debbo dare un semplice cenno ai risultati raggiunti, sintetizzati nello schema.
Trafugata da alcuni tombaroli del posto nel 1978, fu subito venduta per 8 milioni di lire ad un grosso trafficante internazionale che pur risiedendo anagraficamente a Gela di fatto viveva in Svizzera.
Questi la nasconde in Sicilia e prende accordi con una funzionaria del Paul Getty Museum di Malibù (California) con la quale decidono di “congelare” il bene per qualche anno.
Nel frattempo i due individuano in un commerciante di opere d’arte e titolare di una società di trasporti internazionali in Londra, la persona giusta per un passaggio di “ripulitura” ed organizzano il trasferimento dell’importante reperto.
Nel 1985 la statua viene trasferita via mare dalla Sicilia in Francia e da qui raggiunge la Svizzera, ove il commerciante londinese l’acquista nel 1986 pagando al trafficante la somma di 5 milioni e mezzo di dollari (pari allora a circa 8 miliardi di lire).
Per inciso, da successive indagini condotte in altra sede sul riciclaggio di beni culturali da parte delle organizzazioni mafiose, risultò che trafficante gelese nel 1988 partecipò con una quota di 8 miliardi di lire (pari a quella percepita dalla vendita della statua) ad una operazione di investimenti immobiliari nella “Costa del Sol” in Spagna che faceva capo al clan mafioso di Nitto Santapaola, nella quale confluivano i proventi dei traffici illeciti internazionali di armi, di droga e di numerose opere d’arte.
Nel 1987, il Paul Getty Museum sdogana a Los Angeles la statua con l’intesa di pagarla dopo averne accertata l’autenticità, e per questo si rivolge per un parere proprio allo studioso che poi ce lo riferì.
Nel 1988 il museo, accertata l’autenticità e l’importanza della statua, paga al commerciante inglese la somma di 20 milioni di dollari (pari a circa trenta miliardi di lire).
A metà di quell’anno, come detto, partono le nostre indagini durate quattro anni per dimostrare l’illeceità dell’operazione museale, con il coinvolgimento delle Polizie di mezzo mondo; ma occorreva ora rientrare in possesso dell’eccezionale reperto.
Nel 1992, recatomi a Los Angeles per altre indagini ma con lo scopo principale di affrontare personalmente il problema della statua, chiesi ed ottenni un appuntamento con il Direttore del Paul Getty Museum, che mi accolse come si addice alle più alte personalità del mondo della cultura e mi accompagnò nella grande sala in cui era esposta la statua.
Ma quando posi l’accento sulla sua importanza per quel contesto storico dal quale era stata strappata, cambiò umore ed in pratica mi liquidò cortesemente ma in fretta sentenziando: «…Se non l’avessimo valorizzata noi, starebbe ora ad ingombrare qualche ammuffito sotterraneo dei vostri musei!».
Su questo forse aveva ragione e, anche con riferimento ai positivi esiti investigativi, questi fu chiaro: «…E non crediate – disse – che anche se riusciste a trovare persone che vi confessano di avere rubato dal vostro sottosuolo la statua, noi ve la daremmo: voi potreste pagare quelle persone e noi ne pagheremmo altre per dichiarare il contrario…! ».
Inutilmente tentai di fargli rilevare che era evidente come il reperto provenisse dalle “Colonie greche nel Sud Italia”, come appariva nella targa posta sotto il piedistallo della statua, perché egli mi rispose stizzito: «Se proprio la volete, ci date i venti milioni di dollari che abbiamo pagati e ve li fate restituire da chi li ha presi!»
In sostanza, anche se era maturata la certezza circa la proprietà italiana del prezioso reperto, da parte del museo americano vi fu un netto rifiuto di restituzione.
Frenando la rabbia e l’orgoglio sferzato, azzardai una proposta!
Gli dissi che l’Italia, particolarmente interessata proprio a quella statua, in cambio avrebbe potuto cederne una simile ed avrebbe potuto avviare un rapporto di collaborazione mediante cessione temporanea di altre importanti opere d’arte da esporre e sfruttare nel museo, con la promessa di sospendere le indagini ed annullare il contenzioso.
Si creò subito un rapporto di simpatia in un clima di cordialità e ci lasciammo con le effusioni di vecchi amici.
Tornato in Italia e riferita la proposta all’allora Direttore Generale del Ministero dei Beni Culturali, questi si dimostrò scettico ed in pratica bocciò l’idea.
Ne parlai, a Palermo, col mitico e compianto Alberto Bombace – allora Direttore del Dipartimento Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana – al quale peraltro dopo la sua scomparsa è stata intitolata la Biblioteca centrale della Regione Siciliana.
L’esplosione di entusiasmo del Bombace mi commosse: «Ma noi gliene diamo tre di statue simili – mi disse – e poi li facciamo venire in Sicilia, facciamo un museo con loro, prestiamo tutte le opere che vogliono, così ce le pubblicizzano pure…!».
Fu così che venne avviato, e non come oggi ci raccontano alcuni politici, quel discorso che poi ha portato alla restituzione da parte dei musei americani di numerose opere d’arte di proprietà italiana.
Dopo il colloquio con Bombace ripresi i contatti col Paul Getty Museum tramite l’U.S. Custom Service di Los Angeles. Si raggiunse quasi subito l’accordo che un funzionario del museo sarebbe venuto in Sicilia per scegliersi tre delle tante statue di epoca ellenistica esistenti nell’Isola, ovviamente di minore valore storico ed artistico, in cambio dell’Afrodite.
Ma quando si giunse a concretizzate, sia io che l’alto funzionario della Regione Siciliana dovemmo smorzare gli entusiasmi. Eccitati dall’esito delle trattative solo a quel punto ci fu ricordato che in materia di beni culturali l’autonomia regionale si riduceva esclusivamente all’aspetto gestionale restando quello decisionale in capo al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, che non condivise il progetto.
Né fu possibile ottenerne la restituzione per le vie diplomatiche perché gli Stati Uniti d’America non avevano mai accettata e ratificata per questo aspetto la Convenzione UNESCO del 1972. In pratica, per il diritto penale italiano non è valida la formula medievale a cui s’ispirava il diritto romano: cuius est solum, ejus est usque ad caelum et usque ad inferos (chi è proprietario del suolo, possiede tutto quel che è sopra di esso fino al cielo e quel che sta nel profondo della terra); per il diritto statunitense, invece, tale principio era assoluto ed insormontabile per cui gli americani consideravano l’asportazione di reperti archeologici dal sottosuolo italiano alla stregua di furto in danno di privato.
Allora coinvolgemmo il Ministero degli esteri italiano che promosse l’istituzione di una Commissione composta da funzionari italiani e statunitensi col compito di studiare ogni possibile soluzione al problema; sicché, nel 2001, fu finalmente siglato un Accordo tra Italia e Stati Uniti contro il traffico illecito di reperti archeologici.
Le lungaggini burocratiche, gli intrecci giudiziari fra le varie vicende, gli incontri e gli scontri epistolari, gli ingarbugliati meandri del controverso diritto internazionale hanno fatto trascorrere molti anni prima di intravedere il risvolto voluto.
Nel frattempo, però, io non c’ero più perché a luglio del 1992 lasciai il Reparto per ricoprire altro importante incarico affidando la complessa pratica ad uno dei miei collaboratori più fidati, siciliano come me, che ne avrebbe seguito egregiamente negli anni successivi gli sviluppi fino ad accompagnare la statua a “casa sua”.
Chiaramente il merito non va attribuito soltanto ai Carabinieri del Patrimonio culturale, ed a me in particolare per aver scoperto ed inseguita la statua per quattro anni, e men che mai al Comune di Aidone, per quel che si vedrà; bensì ad un valente magistrato del Tribunale di Roma che avviò una imponente azione istruendo il più importante processo di tutti i tempi in tema di tutela dei beni culturali. Processo che favorì positive trattative diplomatiche, determinanti per un’inversione di tendenza da parte dei musei americani, che continuavano a disattendere l’Accordo del 2001, a fronte della promessa di “insabbiare” – come si suol dire – le risultanze processuali.
Sulla fine del 2005 incontrai nel corso di una cerimonia il “mio” maresciallo al quale avevo affidata la pratica e gli chiesi notizie della “mia statua”. Mi confermò, come non avevo mai avuto dubbi, che in tutti quegli anni non aveva perso occasione per sollecitare inutilmente attraverso l’Intepol il museo californiano ad adeguarsi alla convenzione del 2001; tuttavia sembrava che qualcosa cominciasse a muoversi.
Nei primi giorni del 2006, prima che cadesse il Governo Berlusconi III, seppi che il Ministro per i Beni e le Attività Culturali Rocco Buttiglione ebbe una impennata che tradì la sua posizione iniziale di “attendere la conclusione del processo per determinare le responsabilità” in relazione ai tanti beni trafugati dall’Italia ancora residenti negli Stati Uniti d’America nonostante l’Accordo del 2001.
Un mattino, si racconta, mise in fretta e furia in una valigetta alcuni documenti e si fece accompagnare all’aeroporto. Andò in America per protestare col suo omologo per la mancata esecuzione dell’Accordo da parte dei musei americani.
Si dice che tornò con la notizia che il Paul Getty Museum, detentore della massima parte e dei più importanti beni culturali italiani trafugati, avrebbe restituito tutto subito se si fosse esaminata la possibilità di “venire incontro” nel processo che si stava celebrando a Roma dopo la sentenza di rinvio a giudizio del 13 dicembre 2004 in cui era imputata anche l’ex direttrice del dipartimento archeologico del museo (non per lei, fu precisato, ma per il buon nome del museo).
A conferma di questo, in quel contesto si lesse di una intervista rilasciata dall’assessore regionale ai Beni culturali Alessandro Pagano il quale definì il fatto come “Una svolta storica per la quale in sinergia con il ministro Buttiglione lavoriamo da tempo” aggiungendo che stavano per approdare a concreti risultati per quanto riguardava la restituzione dei pezzi archeologici trafugati dai tombaroli. “… E la Sicilia è particolarmente interessata all’accordo”, aggiunse.
Fu questa la base dei successivi sviluppi e non come oggi alcuni ci raccontano.
Il 1° agosto 2007, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nella persona del Segretario Generale Professor Giuseppe Proietti, ed il J. Paul Getty Trust, in persona del Direttore Dott. Michael Brand, raggiunsero l’accordo che prevedeva la restituzione della quasi totalità delle opere reclamate.
Ministro dell’epoca, col Governo Prodi II, l’Onorevole Francesco Rutelli che per l’occasione si guadagnò dalla stampa l’appellativo di “Francesco giullare dei Beni culturali”.
Lo Stato italiano, si impegnò ad “aggiustare” in qualche modo le pendenze processuali in corso e di collaborare in futuro col museo americano mediante prestiti di opere d’arte significative, mostre congiunte, ricerca e progetti di conservazione e restauro, come voluto dalla Convenzione del 2001 “con la previsione di favorire ed incrementare l’interscambio a scopi culturali, educativi e scientifici anche tramite accordi specifici tra i musei e le istituzioni dei due paesi per prestiti di materiale archeologico a scopi di ricerca e studio, anche mediante incoraggiamento alle istituzioni americane a partecipare a progetti di scavo, anche su loro proposta”.
Analogo accordo fu siglato con gli altri musei americani.
Alla fine dello stesso 2007, esposte al Palazzo del Quirinale nell’ambito della mostra denominata “Nostoi. Capolavori ritrovati”, le opere hanno potuto essere ammirate da migliaia di visitatori.
Gli “Argenti” e gli “Acròliti” di Morgantina, invece, che avevano seguito le stesse vicende della statua, furono restituiti successivamente.

E l’Afrodite?
Quello stesso anno una intensa campagna di stampa, che la dava in arrivo a breve, scatenò bramosie e agitazioni tali da far temere quelle lotte intestine che si sono poi realizzate fra Stato, Regione, Provincia e Comune per la conquista della supremazia nella gestione dell’evento.
Si svegliarono gli Amministratori di Aidone e si mossero i funzionari regionali dando luogo a quella che un giornalista definì “passerella plaudente”.
Si agitarono anche i vari imprenditori e, nell’attesa dell’evento del secolo, nella zona cominciarono a proliferare negozi ed attività artigianali sorti nella fretta di arrivare in tempo all’appuntamento nella previsione del lancio di un turismo di massa.
Tutto questo, quando ancora non si era deciso se la statua si sarebbe fermata a Roma oppure a Palermo o ad Aidone, dove nessuno sapeva ove collocarla.
E mentre le discussioni diventavano sempre più aspre, la Regione stanziò un milione e mezzo di euro ed istituì una Task Force composta da ben sette funzionari per trovare la giusta collocazione della statua ad Aidone.
Eppure, per evitare frettolose “passerelle”, bastava semplicemente leggere il protocollo d’intesa sottoscritto nel 2007 il quale prevedeva la restituzione della statua dopo il 31 dicembre 2010.
E quel giorno alla fine arrivò!
Prelevata a Malibù e scortata dal mio antico collaboratore che per tutti questi anni aveva curato la pratica lasciatagli in eredità, la statua giunse ad Aidone il 17 marzo 2011; ma nessuno si curò di invitarlo alla cerimonia ufficiale svoltasi alle fine del maggio successivo.
Nessun cenno ai Carabinieri che avevano scoperto ed inseguito per lunghi anni il prezioso bene fino a riportarlo a “casa sua”, nessun cenno al valente Magistrato che aveva svolto la complessa indagine, nessun cenno al Ministro che aveva sbloccata la situazione con la sua “impennata”.
In compenso, intanto che schiere di cosiddetti “esperti” si dibattono per cambiare nome e storia alla statua che per oltre un ventennio è stata ospitata da uno dei più prestigiosi musei del mondo sotto il nome di Aphrodite, ampio spazio e lunghe interviste vengono concessi ad un ex magistrato, noto collezionista e all’epoca dei fatti proprietario di una villa proprio ai margini dell’area archeologica di Morgantina, che seguì le prime battute dell’indagine ma che nel 1998 venne indicato da un tombarolo “pentito” per i segreti rapporti che lo legavano alla “famiglia” di Cosa Nostra di Enna per un “colossale traffico di reperti archeologici trafugati in giro per la Sicilia”.
Quale indicibile dispiacere per quanti avevano speso una buona parte della propria vita, in silenzio, solo perché alla fine fosse riportato in Patria un pezzo di marmo frantumato in otto pezzi e ricomposto in loco da esperti americani, con ingenti spese a carico dello Stato! Un “pezzo di marmo” che però era diventato un simbolo nazionale, attorno al quale si continuano a giocare “partite politiche” alimentando quella “passerella plaudente” prima indicata.
Resta la consolazione di aver ridato alla Sicilia un bene di inestimabile valore, prima sconosciuto, poi poco conosciuto, scoperto e rincorso da un manipolo di uomini, ignoti ed ignorati siciliani, stranieri in terra propria.
Ma mi chiedo: «Almeno qualcuno in Sicilia conosce la vera storia dell’Afrodite di Morgantina (o Venere che dir si voglia), o Demetra, o Persefone o comunque la si voglia chiamare?»
Certo è, comunque, che fu costruita nel citato triangolo dell’espansione greca con un tipo di roccia “calcarenite organogena” proveniente dal territorio dell’antica Kamarina, ora in provincia di Ragusa.