Enna “Ma quella cosa davanti al Municipio che mi rappresenta?”

Nonostante conferenze e comunicati stampa, interviste e commenti, un punto interrogativo continua insistentemente a occhieggiare in città, al termine di una domanda più o meno esplicita: ma ‘sta cosa, davanti al Comune, che mi rappresenta?

Personalmente credo che il problema stia non nella “cosa”, ma nell’occhio di chi guarda, diseducato a una libera visione da quell’antico pregiudizio (per la verità crollato da almeno un secolo) relativo all’arte, per cui questa deve necessariamente “rappresentare” qualcosa. Pertanto penso che per cominciare a cogliere il senso o il significato di ciò che ci sta davanti, basterebbe interrompere i nostri automatismi mentali, disporsi a una pausa di vera attenzione e guardare con occhio e animo sgombro.

Tralasciando tutte le informazioni (già pubblicate e note) su progettisti, artigiani esecutori, patrocini – ciò che vediamo è essenzialmente un sistema architravato di verticali e orizzontali che non può non richiamare il concetto di portale. Vi si legge l’archetipo del dolmen megalitico, il sistema colonnare classico, il pronao dei templi, il vestibolo delle chiese. Si pensa alla Porta di Lampedusa di Mimmo Paladino, alla Finestra sul mare di Tano Festa. Perfino allo Specchio di Alice, all’armadio di Narnia e allo Stargate.

Ed è da lì che, lasciando liberamente associarsi idee, ricordi, immagini, sensazioni, possiamo continuare il nostro percorso di avvicinamento e comprensione.

Un portale è un passaggio. Crea un percorso, segna un’area e un accesso che prima non c’era. Ci invita, ci chiama. Come una voce. E d’altra parte la struttura non ha quasi materia, tanto è agile e aerea, come un sistema di echi sonori. Non camuffa la facciata del nostro Municipio/Teatro, non le si impone, non la nasconde e non la altera, la amplifica invece, potenziandola senza pesarle addosso. Davanti al suo ingresso monumentale, si pone come una “estroflessione” del principio “accogliente” insito, almeno per statuto ontologico, in un ente/edificio come quello. Materializza in altri termini, l’atto di un accogliere, di un andare a prendere.

Ci troviamo sotto una successione di campate appena suggerite che ci conducono – eliminando naturalmente, senza umiliazione di artifici, dislivelli e barriere – all’ingresso. Non senza aver prima intersecato, proprio come nelle basiliche la navata centrale incrocia il transetto, uno spazio perpendicolare abitabile dai due lati, dove trovano posto una serie di cubi blu, mobili e utilizzabili a piacimento.

Senza monumentalità dunque, ci troviamo in una “cattedrale pensata”, che non oppone resistenza all’aria e alla luce, che non nasconde, ma anzi rivela e identifica uno spazio “sacro” come in tutte le architetture decisive dell’umanità.

Ma cos’è questo spazio sacro? Ci si arriva. Ci si arriva a percepirlo, se – vinta la pigrizia o la diffidenza o qualunque altra cosa – cominciamo a spostare i cubi blu (come il cielo? come l’acqua?) da una parte e dall’altra, e ci saliamo sopra, o ci sediamo e guardiamo cosa ne fanno gli altri… Sì, ci possiamo sedere, ci possiamo giocare a costruzioni come quando eravamo bambini, possiamo chiacchierare, leggere, recitare, danzare… sta a noi decidere cosa, sta a noi sciogliere la parte libera e creativa, perciò sacra, del nostro cuore… Lo spazio/tempo così definito si sottrae al traffico urbano, al resto della città, ne interrompe il fluire continuo, se ne separa senza separarsi, si proietta spiritualmente in una dimensione altra e si fa pertanto “sacro”. Determinante la semplicità, l’assenza di decorativismo superficiale, la nuda essenzialità dei materiali, che sembrano alludere ai 4 elementi: l’acqua del blu dei cubi, l’aria che circola e sostanzia l’intera struttura, la terra suggerita dal legno delle strutture, il fuoco presente nell’idea stessa del metallo, il corten che costituisce il portale principale.

Di sera, grazie a un sistema di faretti su tirante sottile che evoca le istallazioni provvisorie e le bandierine delle feste paesane, il legno chiaro dei portali diventa un disegno grafico di sottili linee luminose, e l’impiantito un tappeto immateriale di luce. Mentre il portale principale, il corten traforato da quadratini – la base alchemica della materia – aggregantisi via via in figure e lettere (sintesi di tutto il reale fino alle strutture linguistiche del pensiero) diventa una gigantesca lanterna.
Ne deriva un effetto magico, fiabesco e arabeggiante, di un surreale cosmico.

Ecco, questo fa l’arte, quando esce per incontrare le città. Potenzia l’esperienza sensibile dei luoghi e di noi stessi, strappando gli uni e gli altri a quella “inesistenza” che nasce dall’abitudine e dalla conformità.

Cinzia Farina