Mary, ballerina ennese, a due anni dalla denuncia incontrerà il suo aguzzino in tribunale

Incontrerà il suo aguzzino in aula, a due anni dalla denuncia per atti persecutori e lesioni. Mary Di Blasi è una ballerina della provincia di Enna. Flessibile come un giunco, eterea come l’aria ma determinata come un gladiatore. Lei ce l’ha fatta, a differenza di tante donne che non hanno avuto il coraggio di denunciare i propri mariti, fratelli, padri o compagni violenti, rimanendo impantanate in storie che, sempre più spesso, portano alla morte. Ce l’ha fatta, anche perchè ha avuto un pizzico di fortuna che ha permesso alle Forze dell’Ordine di aiutarla, prima per telefono, poi sul posto dove, il suo allora fidanzato, l’aveva portata per un ultimo incontro chiarificatore. “Era una storia che ormai si trascinava da mesi – dice Mary – Lui ossessivo, geloso, bugiardo, manipolatore. Così lo avevo lasciato. Mi ha chiesto di incontrarlo un’ultima volta. E lì ho rischiato di morire”. Il processo contro quel fidanzato, un giovane della Costa d’Avorio, si tiene al Tribunale di Caltanissetta e il Gup ha ammesso la costituzione di parte civile dello sportello antiviolenza Diana Enna, dell’Associazione Co.Tu.Le.Vi. Un fatto importante perche si riconosce il diritto delle Associazioni ad essere presenti nel processo penale in quanto titolari di un diritto leso dal reato. Mary è assistita dall’avvocato Eleanna Parasiliti Molica del Foro di Enna. “E’ da giorni che, per me, è cominciato il conto alla rovescia – dice Mary – sarò seduta al banco dei testimoni e ripercorrerò una parte della mia vita, per fortuna ora lontana. Risentirò quegli audio dell’aggressione. Sarà certamente doloroso, ma sono felice di non avere permesso a nessuno di tapparmi la bocca. Dal giorno in cui ho denunciato la mia vita si è ripulita finalmente di quel fango appiccicoso che imbrattava tutto ciò che amavo. Vorrei dire alle tante donne che soffrono, che tacciono, che subiscono che non è da un uomo che arriva la felicità. E quando ci si accorge di essere state ingannate, da chi diceva di amarci, bisogna saper perdonarsi e riprendere in mano la propria vita, meglio di prima”. Quest’anno in Italia, dall’inizio dell’anno ad ora, si è registrato un femminicidio ogni cinque giorni. Un dato che, purtroppo, è destinato a crescere. Una strage senza fine che le associazioni antiviolenza di tutta Italia provano a contrastare. I numeri raccontano, i numeri, lanciano campanelli d’allarme. “La violenza di genere è un crimine odioso che trova il proprio humus nella discriminazione, nella negazione della ragione e del rispetto. Una problematica di civiltà che, prima ancora di un’azione di polizia, richiede una crescita culturale. È una tematica complessa che rimanda ad un impegno corale. Gli esperti parlano di approccio olistico, capace di coinvolgere tutti gli attori sociali, dalle Istituzioni, alla scuola, alla famiglia”. Lo diceva il capo della polizia Franco Gabrielli in occasione della scorsa Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre. Nei primi anni del nuovo millennio, la percentuale di donne uccise nell’ambito familiare rappresentava il 25% del totale degli omicidi, recentemente la percentuale è salita al 40%. Denunciare, rivolgersi ai centri antiviolenza per chiedere aiuto, è possibile. Sempre. Ma c’è bisogno di un doppio binario per affrontare questo tema. La violenza alle donne è una pandemia globale che attraversa le donne ogni giorno per 365 giorni l’anno. E c’è bisogno subito di misure che diano la possibilità alle donne di sottrarsi alla violenza. Come? Il primo passo è credere alle donne quando denunciano, le donne vanno credute se denunciano le violenze. Troppe volte le donne vengono rimandate a casa dopo aver segnalato alle forze dell’ordine situazioni di difficoltà di violenza se non maltrattamenti e stalking. Non vengono credute o la loro denuncia è sottovalutata. L’approccio delle forze dell’ordine, delle procure, degli operatori socio-sanitari deve essere diverso, deve cambiare. Non si possono lasciare andare le donne, sottovalutando le denunce che fanno, perché questo le espone a rischio. E non è un rischio lieve: è un rischio di morte. Quindi serve un lavoro sinergico e di formazione di tutti i soggetti che in qualche modo sono coinvolti procure, carabinieri, forze di polizia nel momento in cui accolgono le donne. Altra cosa da fare subito per sottrarre le donne alla violenza è potenziare i centri anti violenza che accolgono le donne. E, principalmente, bisogna cambiare la cultura che sta alla base del fenomeno della violenza alle donne: la decostruzione degli stereotipi è il vero deterrente per affrontare in profondità questo tema.

Pierelisa Rizzo