Liberi consorzi, il caos normativo che rischia di paralizzare i territori

Una delle tante anomalie contenute nella paralizzata legge regionale sui liberi Consorzi comunali, che oggi si vuole modificare solo attraverso la reintroduzione dell’elezione diretta dei propri organi di governo, deriva dall’infelice attribuzione dello status di “Comune capofila” del libero Consorzio comunale a quel Comune dotato di una popolazione superiore. Riteniamo che l’illuminato legislatore siciliano abbia voluto scimmiottare il vecchio concetto di “capoluogo di provincia” per un verso, e per altro verso tentare, malamente, di individuare un presidio istituzionale più consono ai tradizionali modelli associativi dei Comuni. Bene, il legislatore siciliano non è riuscito a fare né l’uno né l’altro.

Il capoluogo di provincia

Il “Comune capofila” non può infatti considerarsi alla stregua del Comune capoluogo di provincia che rimarca, in linea con l’evoluzione dottrinaria d’interpretazione dei principi costituzionali circa l’ordinamento degli enti locali e l’attuazione dello stato sociale, le componenti essenziali del territorio e di polo di direzione (che comporta altresì anche l’individuazione fisica del centro operativo: il capoluogo). Il capoluogo di provincia ha infatti la fondamentale responsabilità istituzionale di orientare lo sviluppo economico- sociale delle comunità locali di rispettiva giurisdizione, attraverso la formazione ed
attuazione della programmazione locale e regionale, la razionale organizzazione delle strutture dei servizi e l’attuazione del decentramento regionale e statale.

Il Comune capo-fila

Lo status di “Comune capofila” è altresì mal posto perchè riferito ad un ente (il Consorzio comunale) dotato di personalità giuridica e di autonomia amministrativa e finanziaria, in cui i Comuni che ne fanno parte hanno pari dignità istituzionale. La governance del Consorzio comunale è assicurata statutariamente dagli organi di governo nominati in forza del principio di rappresentatività dei Comuni. Appare evidente che il Comune minore avrà una quota di rappresentanza negli organi esecutivi del Consorzio comunale proporzionata al suo dato demografico. Invero, l’invocato status di “Comune capofila” viene tradizionalmente utilizzato per quei modelli associativi degli enti locali che, a differenza del Consorzio comunale, risultano sprovvisti di personalità giuridica. Tipici sono gli esempi di quei Comuni che si
associano per raggiungere collegialmente uno scopo (a volte provvisorio come la partecipazione ad un progetto comunitario, a volte durevole come la gestione dei piani di zona della legge 328/2000 attraverso i distretti socio-sanitari. In tale contesto, l’individuazione del Comune capofila è necessario per assicurare la rappresentanza esterna, l’imputazione dei costi e l’eventuale esercizio delle funzioni di amministrazione aggiudicatrice. I rapporti tra i Comuni coinvolti sono regolati da una convenzione o da
un accordo di natura negoziale.

Il vuoto istituzionale

Se tale confusione regna sovrana per i liberi Consorzi comunali che si volessero costituire ex-novo, è in quelli direttamente istituiti dalla legge che si raggiunge l’apoteosi, per i quali il legislatore si limita a dire che la sede di tali enti (Enna, Caltanissetta, Siracusa, Agrigento, Ragusa, Trapani, Catania, Messina e Palermo) corrisponde a quelle delle province regionali. Ora, se è certamente da escludere una creativa interpretazione volta ad individuare il Comune capofila in capo a quel Comune ove aveva sede la soppressa provincia regionale, considerato che il requisito della popolazione maggiore porterebbe scompiglio in territorio nisseno (Gela ha un numero di abitanti superiore a Caltanissetta), ci piacerebbe sapere dal legislatore regionale quale sia la funzione del “Comune capo-fila” e se in Sicilia esiste ancora il “capoluogo di provincia”.

Massimo Greco