La signora Dalloway, Virginia Wolf

La signora Dalloway, Virginia Wolf
Lo spazio è Londra; la stagione, l’estate; il mese, giugno. Il tempo è dalla mattina alla sera.
Una mattina di giugno di esattamente 90 anni fa (il 13 giugno 1923) Clarissa Dalloway esce a comprare i fiori per la festa che sta organizzando. E subito entriamo nel mondo di questa signora inglese che non è un’eroina, non è giovane, non è innamorata – bisogna ricordarlo che Clarissa Dalloway è una cinquantaduenne signora dell’alta borghesia londinese?
La prima bellissima pagina è totalmente impressionista, nel senso che descrive, anziché interpretare, le sensazioni, le impressioni, che creano la vita interiore di Clarissa Dalloway; ricordi che si intrecciano con la nostalgia di ciò che è andato per sempre, angosce, solitudini, emozioni: un flusso incessante di parole che si aprono ad altre parole.
Il cigolio dei cardini che la rimandano al periodo della sua giovinezza passato a Bourton; l’aria fresca, calma di prima mattina “come la carezza di un’onda, il bacio di un’onda, freddo e pungente”; e poi i rintocchi del Big Ben (“i cerchi di piombo si dissolsero nell’aria”) attraversando Victoria Street. Bond Street:
“Bond Street la mattina presto nella stagione giusta; con le bandiere al vento, i negozi, niente sfarzo, niente luccichii, una sola pezza di tweed nel negozio dove per cinquant’anni suo padre si era comprato i vestiti; qualche collana di perle; salmone su un blocco di ghiaccio”. E poi la gente: “il loro andamento lento, faticoso, nel chiasso e nel frastuono, le carrozze, le automobili, i tram, i furgoni, gli uomini-sandwich che vanno avanti e indeitro, le bande e gli organetti”. “La vita, Londra, quell’attimo di giugno”.
Uno dopo l’altro incontriamo tutti gli affetti di Clarissa Dalloway: Peter Walsh, l’innamorato, respinto, di un tempo , infantile, sentimentale, eccentrico; Elizabeth la figlia diciassettenne, la stessa età che aveva Clarissa quando era innamorata di Peter; il marito Richard. E poi Sally e Hugh, l’impreggiabile Hugh Whitbread. Lady Bexborough, Lady Bruton. E l’odiosa signorina Kilman e Lucy e la signorina Pym.
Annunciato dallo scoppio di una macchina che accosta al marciapiede, Septimus Warren Smith, un cognome banale e un nome fantasioso, è l’altro protagonista del romanzo, l’alter ego di Clarissa, l’unico che non ruota intorno a lei ma le si contrappone. Tra Septimus e Clarissa si stabilisce un collegamento; e tutta la giornata sembra essere una successione di momenti che convergono all’istante in Clarissa penserà a lui, a questo disertore della vita.
Septimus è un giovane che aveva sognato di diventare poeta; è segnato dalla guerra e tormentato dal senso di colpa per la perdita dell’amico Evans. Probabilmente la sua storia è stata ispirata da quella (reale) di Jean Diaz, il protagonista di un film dell’epoca di denuncia della condizione dei veterani di guerra. Anche Jean Diaz è un giovane poeta piegato dagli orrori vissuti in guerra; anche Jean Diaz è malato, ha allucinazioni, parla con chi non c’è più.
Le pagine su Septimus sono tra le più belle di tutto il romanzo e anche una delle poche testimonianze della Woolf sulla malattia mentale. La descrizione della sofferenza di Septimus non può essere letta senza pensare alle ricorrenti crisi depressive che la porteranno al suicidio. E lei, che conosceva bene i medici, li descrive i medici con una buona dose di satira: il dottor Holmes, appartenente alla middle class che pensa di guarire il suo paziente invitandolo a crearsi un hobby, andare al music-hall o alle partite di cricket; e il dottor Bradshaw, appartenente all’upper-class che intuisce la serietà della malattia di Septimus, ma lo tratta con arrogante distacco.
E in questa lunga giornata vediamo Peter che dopo essere andato a trovare, inaspettatamente, Clarissa va a Regent’s Park dove si imbatte in Septimus che in una delle sue crisi minaccia la moglie di uccidersi e li scambia per una coppia di innamorati che stanno litigando; e Richard a pranzo da Lady Bruton; ed Elizabeth che esce con la signorina Kilman.
Ma l’orologio batte i suoi colpi e la giornata sta per finire. Clarissa apre la sua casa agli ospiti, ciascuno attore di se stesso: il politico, il medico, il frivolo. La notizia della morte di Septimus viene portata da Lady Bradshaw e suo marito e ha un eco profondo nei pensieri di Clarissa che sente di capire il gesto di quel giovane di cui i Bradshaw parlano – è la causa del loro ritardo. Sola, in un salottino, nota muoversi, nella finestra illuminata della casa di fronte, una donna, e rimane a guardarla fino a che la luce viene spenta. Osservando la casa immersa nel buio Clarissa pensa alla morte ma senza paura, sente che la vita riempie il suo vuoto ed è ora di tornare al ritmo svagato della sua festa.
E’ il 1925 l’anno in cui esce “Mrs Dalloway” e insieme a questo romanzo, Virginia Woolf pubblica una serie di saggi in cui spiega ai suoi lettori:”Tollerate lo spasmodico, l’oscuro, il frammentario, il fallimento […] stiamo tremanti sull’orlo di un’altra grandissima epoca di letteratura inglese”. L’assenza di una trama, attorno alla quale sviluppare caratteri e storie, la frantumazione di una giornata in prospettive, cose percepite, scampoli di memoria contribuisce a far brillare questo grande romanzo preservandolo dalla polvere del tempo, dal sapere come va a finire. E’ come una finestra su una giornata fatta di immagini e colori, un prato punteggiato di fiori, tutti i fiori della signora Dalloway – le rose gli iris, i lillà, i piselli odorosi, e i delfinium, i garofani e le calle, le orchidee – aperta ora alla vita, ora alla morte. Un ordito di suoni – quello del Big Ben, lo scoppio proveniente da una macchina, il volo di un aereo che segnano il passaggio di prospettiva da un personaggio all’altro. E non resta che ascoltare e seguire il suono con cui si apre il libro: “La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei”.

Recensione di P. Brea