SANSONE E I FILISTEI (di Enna Provincia e altro) by Peppino Margiotta

Enna. Sono stato in silenzio molto tempo, anche perché non amo confondere i ruoli pubblici con l’attività, per quanto sporadica, di giornalista. Ma l’occasione era troppo ghiotta per starmene in silenzio.
Io, ennese nato a Caltanissetta, e dunque con una macchia indelebile già sul certificato di nascita, ho fatto nascere le mie due figlie, ennesi anch’esse, al vecchio ospedale Chiello di Piazza Armerina, quello che non dovrebbe più far nascere piazzesi, secondo una recente esternazione, ma a questo punto di nessun’altra genìa.
E’ vero che i figli ereditano i peccati dei padri, ma è anche vero che ne sono oggettivamente innocenti. Gli altri due figli, tanto per la cronaca, sono nati a Vittoria, forse per una malcelata forma di rispetto per la patrona della Diocesi.
Credo perciò di essere nelle condizioni di parlare ed essere considerato neutrale in questa disputa che mi è culturalmente estranea, come dovrebbe esserlo ad una popolazione, quella di Enna e Piazza Armerina del terzo millennio, che assieme conta quasi un terzo degli abitanti della Provincia, ex Provincia, forse Provincia, Provincia non si sa.
Gli storici più attenti attribuiscono a diverso titolo alla famiglia Sturzo l’onere, certo per matrice negativa e non per volontà, della elezione di Enna a provincia nel lontano 1926 (sono dunque quasi ottantacinque e non settantacinque gli anni di soprusi e angherie che avrebbero patito i piazzesi). A onta del calatino Luigi, fiero oppositore dl regime e, per pari diritto di sangue, del fratello Mario, Vescovo di Piazza Armerina per molti lustri. Né Caltagirone, dunque, né Piazza. L’invincibile spirto romano fece il resto: l’Urbs inexpugnabilis, le antiche frequentazioni di Cicerone e le citazioni di Ovidio furono motivi più che sufficienti perché “Lui” non avesse esitazioni. Via l’acca dall’antica Henna ed ecco bell’e pronta la nuova provincia. “Ma è un paese di montagna” gli avrà suggerito qualche collaboratore, “per metà è coperto da boschi”, avrà aggiunto qualcun altro. “E’ un luogo inaccessibile, un nido di aquile”, avrà continuato il primo, senza sapere che tutto questo era musica per le orecchie imperiali del duce.
Aquile, boschi littori, grandezza e invincibilità. “Sia fatta Enna provincia” e così fu.
Ma tutto questo con gli ennesi e i piazzesi di oggi cosa c’entra? Esiste infatti il medesimo sciovinismo fra Ennesi e xibetani, gli abitanti del contrafforte di Calascibetta, “ex urbe” per antonomasia. Volevano forse anch’essi ambire al medesimo rango? È evidente che non è così. E la rivalità con i nisseni allora? Ci sono ancora illustri ennesi nati a Castrogiovanni provincia di Caltanissetta, ma non credo nutrano sentimenti di rivalsa per questo. Ciononostante molti ennesi provano ancora un fiera rivalità verso gli odiati “magonzesi“. Che dire allora di pietrini e barresi?
Più famose ancora sono ancora le invettive carrapipane, magari dotte, contro i piazzesi, per poter anche solo pensare ad un barlume di verità nelle nostre diatribe interne, frutto più di folclore popolare che di una qualche certezza.
La verità è che gli accadimenti storici poco importano nelle rivalità paesane. Un illustre editorialista definiva Enna con il termine “borgo”. Io preferisco, in questo frangente, indicare le nostre cittadine come “paesi” in senso sottilmente deteriore, e noi tutti paesani. E perciò stesso rozzi e ignoranti. Non è molto bello dire questo, ma non riesco ad esprimere diversamente il concetto.
Si tratta di residui medioevali, di strascichi che hanno trovato nella storia e nei suoi accadimenti i motivi per continuare ad alimentare nel tempo un’avversione e una diffidenza fra municipi vicini e dunque avversari, non il contrario.
La stessa cultura sciovinista e la medesima demagogia razziale che vige tra leghisti e terroni, solo un po’ più in piccolo.
Effettivamente, generalizzando ai diversi fronti e fors’anche stravolgendo quanto lucidamente individuato dall’amico armerino, si tratta di sentimenti “bassi” che siamo pronti a riversare anche nei confronti dei concittadini stessi. Quella forma di invidia-gelosia tutta paesana, appunto, che non permette agli autoctoni di essere stimati e apprezzati nel proprio contado (tanto per non citare alla lettera i Vangeli). Che poi i confini di questo “contado” siano di volta in volta le mura cittadine, i confini della provincia, piuttosto che quelli regionali o nazionali, è solo una questione di scala, di proporzioni.
Ma il risultato è sempre il medesimo anche se su scala diversa. Piazza Armerina non ha un deputato nazionale, la diocesi non ha mai dato un vescovo, la provincia tende a scomparire, prima nei numeri della propria deputazione, poi via via nei servizi e negli uffici statali, fra breve (forse) in quelli territoriali. La Sicilia mai ha avuto a livello nazionale il peso che le sue dimensioni e la folta rappresentanza politica le avrebbero potuto garantire. L’Italia stessa naviga a vista in Europa e non riesce a prevalere sugli interessi di nazioni come il Belgio o l’Olanda che sono appena più grandi della nostra isola.
Se non usciamo dal nostro isolamento individualista, se non proviamo a sentirci un popolo proprio nel confronto con gli altri, se non troviamo in noi stessi lo stimolo per affermarci come territorio omogeneo e compatto come volete che siano altri a pensare a noi?
L’instabilità politica dei nostri consigli comunali (e non parlo solo di quelli attuali) sono il primo segnale di un deterioramento sociale che non tiene conto della realtà economica del nostro territorio. Mentre moriamo di fame pensiamo alle guerre di religione.
Non c’è consesso civico del nostro interland che non abbia in animo di sfiduciare il proprio sindaco, o perlomeno di metterlo in minoranza. Da Piazza ad Aidone, da Enna stessa a Gagliano, da Regalbuto a Troina. Vado a memoria e posso anche sbagliarmi su qualche nome, ma le condizioni generali sono queste.
Siamo ancora convinti di essere il centro del mondo, cambiamo partito ad ogni piè sospinto, ci spacchiamo in mille correnti politiche o di pensiero, inseguendo primato e prestigio rispetto ad obiettivi ed interessi così limitati da renderli persino ridicoli. Preferiamo renderci vassalli o peggio valvassori e valvassini di questo o quel personaggio politico straniero di alto rango, ma non riconoscere anche indirettamente una leadership locale, qualunque essa sia. O peggio, di costruirne una. Qualsiasi tentativo di azione comune troverà sempre il pierino di turno che preferirà il proprio presunto interesse più importante dell’unità.
Il nostro orticello prescinde dai confini in cui è ristretto e ci appare come un podere o un feudo da amministrare, senza tenere conto che dietro la staccionata gli interessi e le lobby territoriali, quelle metropolitane in particolare, ci stanno massacrando e, appunto, facendo scomparire.
Muoia Sansone con tutti i Filistei! sembra voler gridare a volte il nostro popolo. Ma non si avvede di non essere affatto un sansone e soprattutto che a morire non saranno i filistei ma noi tutti.

Peppino Margiotta


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