20 LUGLIO 1943. L’adolescenza “imperiale” era finita. Cominciava il tempo del “guai ai vinti”

Il proclama del 9 Maggio dopo il terrificante bombardamento di Palermo era stato chiaro: ”Noi Italiani e voi Siciliani difenderemo il sacro suolo della Patria”: firmato Generale Mario Roatta, Comandante la FF:AA: Sicilia (6 Armata). Il 1 Giugno Roatta viene elevato a Capo di stato Maggiore dell’Esercito e il Comando viene assunto dal Generale Alfredo Guzzoni che alla 1,09 della notte tra il 9 e 10 luglio 1943 dichiara lo stato di emergenza a meno di tre ore dallo sbarco delle forze anglo americane nella zona sud orientale dell’Isola.

Il proclama apparve sui muri della città che al mattino del 16 Luglio avrebbe visto la fuga-ma fu detta ritirata strategica -del comando della 6/a Armata(quella Sud per intenderci sotto la supervisione del Principe Umberto di Savoia) che “sgombrando” Enna, sede del comando si spostò verso nord-est dell’Isola in quel momento già parzialmente occupata dal nemico e tartassata da incessanti bombardamenti più o meno a tappeto della Royal Air Force e dalla flotta aerea Statunitense.

Tutto era cominciato quella notte quando la più grande flotta mai vista era apparsa a due ricognitori già quasi a ridosso della costa sud ovest della Sicilia,sulla quale a partire dalle 2,45 del mattino-notte ancora fonda- erano cominciati a calare i paracadutisti che in verità nulla fecero se non disperdersi causa vento di scirocco su una superficie enorme senza potersi radunare come previsto per creare la prima testa di ponte aviotrasportata. Alle luci dell’alba iniziò il primo bombardamento navale sulla costa mentre mezzi di sbarco approdavano sul “suolo sacro della Patria”.
Avevo da poco compiuto 14 anni , promosso avanguardista moschettiere e data la emergenza incaricato in conto UNPA (unione nazionale protezione antiaerea) di andare con maschera anti-gas a tracollo, giberne con munizioni,f ucile modello 91 e divisa – che mi faceva crepare dal caldo-appena tramontato il sole in giro per evitare che trapelassero luci da porte, balconi e finestre che potevano dare agli aerei nemici indicazione. Ne ero orgoglioso,niente paura,grande senso di responsabilità,cieca fiducia nelle truppe dell’Asse(Italia -Germania-Giappone) capaci come aveva detto Mussolini di bloccare sul “bagnasciuga”chiunque si fosse avventurato a metter piede su un lembo della nostra amata Italia.
La notizia dello sbarco mi eccitò ancor più:finalmente avremmo fatto vedere all’odiato nemico i grandi mezzi della nuova tecnologia militare ed i nostri aerei di stanza a Gerbini e Comiso avrebbero colato a picco tutte le navi. Nemico di certo in fuga. Pericolo scampato e via con la controffensiva.
Non avvenne. Anzi tutto il contrario.
Enna venne bombardata ma senza ferocia,perché il nemico pensava che nulla vi fosse di importante. Di fatto non vi erano difese a l’unica mitragliatrice antiaerea era sul campanile della chiesa di S,Francesco che sparava solo per dare coraggio agli addetti all’arma,uomini della MVSN.Gli alti ufficiale passavano fino a qual giorno il tempo nei salotti della nobiltà ennese o allo Hotel Belvedere nelle lunghe notti tranquille.
La nazionale di calcio italiana l’avevano imboscata da noi e per un anno circa godemmo di personaggi famosi: Griffanti detto il gatto nero per i suoi tuffi all’indietro(era un giovane marchese fiorentino)Foni e Rava terzini , muro incrollabile di difesa, Biavati ala destra con il suo passo doppio, Andreoli celebre centrocampista ,Ossola centravanti delle doppia rovesciata all’indietro ed altri. Vi era anche il principe Moncada aiutante di campo di Guzzoni,un tipo strano amante dell’alcool molto dandy e poi generali a non finire italiani anche della Milizia e Tedeschi-pochi e seri.
Tutto tranquillo fino al 10 luglio quando iniziarono i bombardamenti anche diurni che fecero vittime e danni con episodi tragici come quello di una intera compagnia giunta ad Enna a sera tardi accampata nella zona Macello di Enna sorpresa da un bombardamento che la mise in fuga con i soldati ignari di essere su un luogo che dirupava verso Villarosa, falcidata da salti nel buio e morte per sfracellamento a valle! E l’altro con bombe incendiarie lanciate su alcune abitazioni in legno per i militari lungo l’asse di un rifugio aereo a S.Agata scavato nella roccia che ostruì le porte di fuga e vide tanti morire sotto l’impeto di quanti tra il fumo soffocante passarono su altri caduti e maciullati da gente impazzita. Mi trovavo in quel rifugio e ci salvammo grazie a mio padre che ci fece stendere tutti per terra in un incavo del lungo corridoio facendoci lasciare,quasi intossicati ma vivi, la trappola per ultimi.Vidi il mio amico Pino Restivo maciullato ed inerme, riuscii a scansarlo, tenendo per mano mio fratello e uscendo correndo tra le fiamme che ci bruciacchiarono . Una valigetta con i preziosi di casa che la mamma teneva stretta al petto le fu tolta da un pompiere per facilitarle il cammino e mai più la trovammo. Ma eravamo vivi e grande fu la gioia che ci fece dimenticare l’accaduto. Per quattro giorni le notizie ci vennero date da due marescialli dei Carabinieri Palermo ed Astuti: gli unici rimasti di tutte le forze armate che per due anni avevano fatto bella mostra di se in città.
Al mattino del 20 luglio fummo informati che la città era piena di lenzuola bianche in segno di resa. Abbandonammo il rifugio, andammo a casa. Uno strano silenzio di morte regnava ovunque. Eravamo sporchi, affamati, stanchi ma speravamo che i nostri fossero stati capaci di fronteggiare il nemico e respingerlo.
Alle undici circa di un mattino di sole dalla finestra della mia stanza preceduto da un rumore sempre più incalzante vidi passare sulla via Pergusa una camionetta con una mitragliatrice e dei soldati americani. Con loro il principe Moncada ,rivelatasi spia inglese, che ne additava la strada da percorrere per raggiungere il palazzo del Governo. Qualcuno batteva le mani. I miei genitori appena dietro un balcone imperterriti ed impietriti. Io piansi. A dirotto. Umiliato vidi il “nemico” invadere la mia città e gli abitanti a batter le mani a chi calpestava il”sacro suolo”!Ma per loro era la fine delle tribolazioni vissute. In pochi minuti crollarono i miei ideali, infranti dalla sconfitta ritenuta impossibile. Mio padre mi richiamò con un secca e chiara frase:gli uomini non piangono. Mi ricomposi e realizzai che il sogno che tutti i ragazzi dell’epoca avevamo avuto di una Italia grande ammirata ed apprezzata era finito e che eravamo solo una povera nazione sconfitta e senza manco combattere tanto come era logico si fosse fatto. L’adolescenza “imperiale” era finita. Cominciava il tempo del “guai ai vinti”. Lo fu.

Pino Grimaldi