Afrodite di Morgantina: esempio di traffico illecito e recupero reperti archeologici

Un esempio di traffico illecito e recupero di reperti archeologici: l’Afrodite di Morgantina ad Aidone. Stralcio della conferenza tenuta presso la Fidapa di Sciacca il 30 maggio 2009 dal Colonnello Vito Andrea Iannizzotto (nella foto del ’92 con la moglie a Malibù mentre ammirano la Venere di Morgantina), comandante del Reparto Carabinieri tutela patrimonio artistico (ora culturale) e poi come funzionario analista della DIA. L’intera vicenda è meglio illustrata in un libro dal titolo Beni culturali e criminalità organizzata, scritto dallo stesso Colonnello, che ricorda ancora i tanti contatti con l’ex primo cittadino di Aidone, Filippo Curia.

Introduzione: gli interessi mafiosi sui beni culturali
Dico una cosa forse nota a tutti nell’affermare che il traffico internazionale di opere d’arte – e quindi anche dei reperti archeologici – è secondo solo a quello della droga e delle armi ad opera delle consorterie mafiose.
Ma quando alla fine del ’93 azzardai per la prima volta tale affermazione parlando con l’allora Procuratore Nazionale Antimafia, l’esclamazione che ne seguì fu: “Da quando in qua i mafiosi si interessano di cultura?!”.

Eravamo all’indomani delle stragi, definite “terroristico-mafiose”, messe a segno fra maggio e luglio di quell’anno, con numerose vittime, da “cosa nostra” siciliana in danno di importanti strutture culturali.
Ricordiamo in particolare il crollo di un’ala della Torre dei Pulci, a Firenze, sede dell’Accademia dei Georgofili, e quelli di Roma nell’entrata laterale della Basilica di San Giovanni in Laterano e nella chiesa di San Giorgio al Velabro; ma il primo obiettivo, fallito per un banale contrattempo, doveva essere la Torre di Pisa.
Si discuteva sul perché fossero stati scelti obiettivi con valenza culturale ed io formulai l’ipotesi che essi erano stati utilizzati come pressione verso lo Stato per ottenere l’abolizione della norma “del carcere duro per i mafiosi” (meglio conosciuta come “41 bis”), di recente introdotta nell’Ordinamento penitenziario.
I fatti poi mi diedero ragione!

Ho citato questo episodio per dire come a metà degli anni ’90 a livello nazionale non ci fosse ancora coscienza dell’enorme interesse delle consorterie mafiose sui beni culturali sia come mezzo di pressione verso lo Stato per ottenere vantaggi, come nel caso citato, e sia come business per costituire “beni rifugio” o come mezzo di scambio per altre attività illecite oppure per investimento, mediante riciclaggio, in attività imprenditoriali.

Mi soffermerei su alcuni aspetti particolari riguardanti varie forme di aggressione al patrimonio culturale – e non solo da parte dei mafiosi – ed anche sui meandri del mercato illecito internazionale, con particolare riguardo ai reperti archeologici (terrestri e subacquei).
Mi limito solo a ricordare – usando una espressione più volte ripetuta – che l’Italia ha ereditato dal passato i segni lasciati dalle grandi civiltà che abitarono la penisola e dalle innumerevoli dominazioni.
In varie epoche, il territorio è stato trasformato in un immenso museo con la più alta densità di beni culturali per chilometro quadrato nel mondo, in parte a cielo aperto e per la massima parte ancora sommersi e quindi sconosciuti.
È questo il mondo in cui operano i “tombaroli”, che distruggono le vestigia ed il contesto storico, danneggiano in modo irreparabile la composizione del sito, disperdono una parte essenziale delle fonti di conoscenza, sradicando quanto di loro interesse sotto un profilo venale.
In particolare, per quanto riguarda la Sicilia, si pensi anche alle mille espressioni di arte non codificata che adornano le case, i giardini, i quartieri nel loro insieme; ed ancora, le fontane, le scalinate, le inferriate ed i cornicioni dei palazzetti, la ricca e bizzarra architettura delle masserie abbandonate, le preziose ceramiche sacre disseminate ovunque e le edicole (meglio note come “madonnelle”) contornate da oggetti votivi o le antiche “viae crucis” scolpite nella roccia.
E tutto questo – alla mercé di speculatori senza scrupoli, senza radici e senza valori – non poteva sfuggire all’attenzione della criminalità organizzata.
Ecco perché “i mafiosi si interessano di cultura”!

Posso però affermare che a partire dagli anni novanta si è sviluppata una notevole sensibilità verso il fenomeno della spoliazione del patrimonio culturale, e non solo con interventi legislativi da parte delle Istituzioni ma anche e soprattutto da parte della collettività.
Sono stati riscoperti i valori intrinseci dei beni culturali, è stata sviluppata la conoscenza di essi ed incoraggiata la loro valorizzazione.
Del resto quella di oggi cos’è se non una espressione di questo sentimento che concorre a formarla?
Per valorizzazione s’intende non soltanto i doveri di tutti noi verso i beni culturali, ma anche la conoscenza delle norme che li regolano ed i diritti che da esse derivano per ogni singolo cittadino, di cui ci dirà più ampiamente il professor Caponnetto.

Non è facile esporre in poche righe l’articolazione, complessa e talvolta avvincente, di una indagine circa la manipolazione e la commercializzazione di reperti archeologici sottratti illecitamente dal sottosuolo italiano, peraltro con grave danno al contesto storico cui appartengono, così come non è semplice illustrare lo sforzo per riportarli in patria.
Ho scelto come esempio di traffico illecito e recupero di reperti archeologici la vicenda della “Venere di Morgantina” perché nel suo percorso c’è anche un risvolto interessante che evidenzia gli enormi interessi della criminalità organizzata sui traffici dei beni culturali, i cui proventi – come detto – vengono poi reimpiegati sia in attività illecite, come quello della droga, quanto in altre apparentemente lecite, quale l’investimento in vari settori economici.

L’ambito archeologico di Morgantina
Il territorio di riferimento è costituito dalla grande Agorà di Morgantina e dalle campagne circostanti situate sui Monti Erei, che dividono il versante orientale da quello meridionale della Sicilia, in agro di Aidone in provincia di Enna, vicino alla più nota Piazza Armerina, di epoca più tarda.
Antica e fiorente città, Morgantina costituiva il più grande centro commerciale dell’entroterra siciliano collegato ai porti di Kamarina e Gela.
Si tratta di tre fra i più antichi e consistenti insediamenti della civiltà ellenica che vivranno poi alterne vicende che vanno dalle guerre puniche alla conquista dei Romani ed infine alla totale distruzione.
Territorio, quindi, con sottosuolo e fondali marini costellati di ogni forma di ricchezza antica che va dalle rarissime monete delle varie civiltà affacciatesi sul Mediterraneo alle statue, ai relitti di navi affondate ed ai loro carichi.
Prima di proseguire, è bene precisare che il sito di Morgantina, dal quale nel corso degli anni sono stati asportati clandestinamente numerosi reperti, fu portato alla luce nel 1955 da studiosi americani autorizzati dalla Regione Siciliana ad effettuare ricerche archeologiche.

La prima operazione
Alla fine del 1987, la Soprintendenza Archeologica di Agrigento ci segnalò lo scempio sempre crescente di questa poco valorizzata ed a noi sconosciuta area archeologica, ove ogni mattina si scoprivano nuovi scavi ad opera di profanatori.
Si pensi che per arrivarci chiedemmo indicazioni ad un impiegato del Comune di Aidone e ad un passante dall’aspetto distinto che non seppero risponderci, mentre fummo messi sulla giusta via – che si poteva percorrere in macchina solo fino ad un certo punto – da alcuni avventori di un bar dall’aria di saperla lunga a giudicare dalle tante domande che ci posero prima di rispondere, come si suol dire “a spizzico”.
Nei primi mesi del 1988, dopo una imponente operazione con provvedimenti restrittivi nei confronti di circa quaranta persone dedite al traffico di reperti archeologici, si cominciò a parlare, sulla stampa nazionale, del sito di Morgantina.
All’epoca la Soprintendenza archeologica competente era quella di Agrigento, magistralmente diretta dalla Dottoressa Fiorentini che ricordo con particolare stima.
In seguito ai fatti che stiamo esaminando venne poi costituita la Soprintendenza di Enna.

In questo contesto si intrecciano diversi ingarbugliatissimi episodi, dai quali trae origine una vastissima indagine internazionale per uno dei più consistenti traffici di reperti archeologici di eccezionale importanza storica, provenienti da scavi clandestini ed esportati all’estero.
Elencarli tutti richiederebbe molto tempo, ma desidero ricordare – oltre alla statua di Afrodite – il cosiddetto “Tesoro di Morgantina” e gli Acròliti la cui asportazione dal sottosuolo e la successiva commercializzazione illecita s’intrecciano con quelli della statua seguendo gli stessi canali.

Un grosso trafficante internazionale di reperti archeologici e soprattutto di monete antiche (anche false), che pur risiedendo anagraficamente a Gela di fatto viveva in Svizzera è tale Orazio Di Simone, che citerò spesso nel corso del racconto.
Racconto di chi ha vissuto i fatti in prima persona.

La statua di Afrodite
A metà del 1988 ancora la Soprintendenza di Agrigento ci segnalò di aver appreso che il Paul Getty Museum di Malibù, in California – a noi già tristemente noto per altri fatti – aveva acquistato una statua di grandissimo interesse artistico e storico di probabile provenienza da scavi clandestini in Morgantina.
Ne aveva avuta notizia da uno studioso americano, fra quelli che in precedenza avevano eseguito i sondaggi autorizzati e che aveva cercato invano per tanti anni in quella zona proprio quella statua per averne avuto conoscenza attraverso i suoi studi.
Le indagini si rivelarono subito complesse e difficili per una serie di problematiche internazionali.
Fu comunque determinante la fattiva collaborazione del Custom Service e del F.B.I. americani, e successivamente di Scotland Yard e delle Polizie elvetica e francese, che riuscimmo a coinvolgere nella passione per i reperti archeologici.

In estrema sintesi, accertammo che la statua, estratta dal sottosuolo di Morgantina nel 1978 da alcuni tombaroli della zona, fu subito venduta per otto milioni di lire al trafficante gelese Orazio Di Simone.
Nel 1979, costui con l’allora Direttrice del Dipartimento Antichità del P.G. Museum, Marion True, studia le modalità di vendita e di trasferimento del reperto. Per formalizzare l’acquisto occorre però trovare dei passaggi di “ripulitura”, quindi sospendono la trattativa.
Successivamente, i due individuano in tale Robin Symes – titolare di una società di trasporti internazionali in Londra e trafficante di opere d’arte – la persona giusta per un passaggio di “ripulitura” ed organizzano il trasferimento del reperto di eccezionale valore storico dalla Sicilia alla California via Svizzera ed Inghilterra.
Trasportata in Svizzera nel 1985, la statua viene venduta nel 1986 al commerciante londinese Robin Symes per 5 milioni e 500 mila dollari (pari allora a circa otto miliardi di lire), tramite un prestanome del Di Simone, tale Renzo Canavesi, siciliano con un negozio di antichità a Chiasso.
In vero, a suo tempo il Symes dichiarò di averla pagata solo 500 mila dollari (cinque milioni meno rispetto a quanto accertato) e Canavesi addirittura affermò di averla ceduta per 400 mila dollari, asserendo peraltro che era appartenuta alla sua famiglia da data antecedente il 1939.
Alla fine del 1987, il Paul Getty Museum riceve all’aeroporto di Los Angeles il prezioso reperto e, dopo averne analizzata l’autenticità nei suoi laboratori, a metà del 1988 formalizza l’affare col Symes per 20 milioni di dollari (all’epoca circa trenta miliardi di lire).

In pratica, un reperto di immenso valore storico strappato alla nostra cultura e pagato all’origine una manciata di soldi (8 milioni di lire per come riferito) è stato venduto, secondo il cambio dell’epoca, per oltre 8 miliardi di lire e rivenduto per circa 30 miliardi di lire.
Da osservare che le somme di denaro di cui si parla sono orientative perché dagli atti emergono dati contrastanti.

Un aspetto interessante riguarda il trasferimento della statua che, secondo una fonte, sarebbe stata spezzettata in più parti per essere agevolmente trasportata in Svizzera ove poi sarebbe stata ricomposta addirittura con una testa appartenente ad altra scultura.
Mi piace però dare maggiore credito ad una diversa versione che affascina per il suo risvolto da romanzo giallo, ma anche perché la prima ipotesi non è stata confermata dalle analisi sul reperto,

È la storia di uno skipper di Nizza ingaggiato nel 1985 da un inglese e da uno svizzero (verosimilmente Symes e Di Simone) per trasportare la statua con la sua barca da Porto Empedocle a Porto Cassìs (Francia) dietro compenso promesso di 400 sterline.
Giunto però a destinazione, i due committenti, ricevuta la merce, sparirono senza pagare.
In seguito alla minaccia diffusa di riferire tutto alla stampa se non avesse avuto il compenso, lo skipper fu avvicinato da due americani, di cui una donna che si faceva chiamare Marion, che gli raccomandarono di desistere dal suo proposito perché avrebbero provveduto loro a compensarlo.
A metà del 1988, appresa dalla stampa la notizia dell’acquisto della statua da parte del museo californiano e visto che i due non si erano più fatti vivi, egli contattò telefonicamente la giornalista di una rivista londinese specializzata in opere d’arte alla quale raccontò l’episodio ottenendo, in cambio, la promessa di un compenso pari a quello perso.
Lo skipper però “sparì” senza ritirare il compenso. Se ne può immaginare la causa.

L’episodio, apparentemente insignificante ai fini delle indagini, poteva ragionevolmente confermare il sospetto che il museo di Los Angeles non era poi così scevro da manovre illecite, come voleva lasciare intendere, pur di assicurarsi opere uniche di irripetibile fattezza.

Da successive indagini, condotte in altra sede sul riciclaggio di beni culturali da parte delle organizzazioni mafiose, emerse che Orazio Di Simone nel 1988 partecipò con una quota di 8 miliardi di lire (pari a quella percepita dalla vendita della statua) ad una operazione di investimenti immobiliari nella “Costa del Sol”, vicino Malaga, che faceva capo al clan mafioso di Nitto Santapaola, nella quale confluivano i proventi dei traffici illeciti internazionali di armi, di droga e di numerose opere d’arte.
In quella impresa confluisce anche parte dei proventi di una partita di droga acquistata da altri soggetti nell’America Centrale mediante cessione di opere d’arte rubate a Bettona, in provincia di Perugia.

Stabilita la proprietà italiana della statua, furono avviati informali quanto infruttuosi contatti con il museo californiano tendenti ad ottenerne la restituzione.
Nemmeno gli ulteriori interventi diplomatici fruttarono la restituzione del prezioso reperto.

Nel 1992, recatomi a Los Angeles per altre indagini ma con lo scopo principale di affrontare personalmente il problema della statua, chiesi ed ottenni un appuntamento con il Direttore del Paul Getty Museum.
Dopo i convenevoli di rito posi l’accento sull’importanza della statua per quel contesto storico dal quale era stata strappata. La risposta lapidaria suonò all’incirca così: “…Se non l’avessimo valorizzata noi, starebbe ora ad ingombrare qualche ammuffito sotterraneo dei vostri musei! “.
Su questo forse aveva ragione e, anche con riferimento ai positivi esiti investigativi, questi fu chiaro: “…E non crediate – disse – che anche se riusciste a trovare persone che vi confessano di avere rubato dal vostro sottosuolo la statua, noi ve la daremmo: voi potreste pagare quelle persone e noi ne pagheremmo altre per dichiarare il contrario…!”.
In sostanza, anche se era maturata la certezza circa la proprietà italiana del prezioso reperto, da parte del museo americano vi fu un netto rifiuto di restituzione.

Frenando la rabbia e l’orgoglio sferzato, azzardai una proposta!
Gli dissi che l’Italia, particolarmente interessata proprio a quella statua, in cambio avrebbe potuto avviare un rapporto di collaborazione mediante cessione temporanea di altre importanti opere d’arte da esporre e sfruttare nel museo.
Si creò subito un rapporto di simpatia in un clima di cordialità e ci lasciammo con le effusioni di vecchi amici.

Tornato in Italia e riferita la proposta all’allora Direttore Generale del Ministero dei Beni Culturali, questi si dimostrò scettico ed in pratica bocciò l’idea.
Ne parlai, a Palermo, col mitico e compianto Alberto Bombace – allora Direttore del Dipartimento Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana – al quale peraltro ho saputo solo di recente che è stata intitolata la Biblioteca centrale della Regione Siciliana.
L’esplosione di entusiasmo del Bombace mi commosse: “Ma noi gliene diamo tre di statue simili – mi disse – e poi li facciamo venire in Sicilia, facciamo un museo con loro, prestiamo tutte le opere che vogliono, così ce le pubblicizzano pure…!”.
Fu così che venne avviato, e non come oggi ci raccontano alcuni politici, quel discorso che poi ha portato alla restituzione da parte dei musei americani di numerose opere d’arte di proprietà italiana.

Le lungaggini burocratiche, gli intrecci giudiziari fra le varie vicende, gli incontri e gli scontri epistolari, gli ingarbugliati meandri del controverso diritto internazionale hanno fatto trascorrere molti anni prima di intravedere questo risvolto.
Nel frattempo fu costituita la Soprintendenza archeologica di Enna ed io fui trasferito ad altro incarico; ma avevo già avviato un’altra importante iniziativa per la Sicilia.
Anche Bombace, smorzando il suo entusiasmo, aveva rilevato: “Purtroppo siete lontani, e siete pochi!”.
In effetti, esisteva la sola sede di Roma con soltanto 39 unità operative me compreso (ora sono più di 300).
Dopo molte difficoltà e resistenze, ma con l’appoggio della Regione Siciliana e con l’incoraggiamento della stampa nazionale, avviai la costituzione di un distaccamento a Palermo, venendomi poi concesso l’onore di inaugurarlo pur essendo ormai in altro settore.
Sull’esempio di quello, successivamente ne sono stati costituiti altri 12, salvo altri realizzati negli ultimi tempi.

Mi scuso se parlo in prima persona, ma questi sono i fatti da me vissuti, e ritengo doveroso precisare – prima di concludere – che l’azione determinante è stata svolta dall’attività giudiziaria.
In particolare, l’eccezionale impegno di un magistrato che ha portato a Roma il più importante processo di tutti i tempi in tema di tutela dei beni culturali italiani è valso ad avviare positive trattative diplomatiche che hanno determinato un’inversione di tendenza da parte dei musei americani.

Il primo agosto 2007, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed il Getty Museum hanno finalmente raggiunto l’accordo che prevedeva la restituzione della quasi totalità delle opere reclamate.
Lo Stato italiano, si è impegnato ad “aggiustare” in qualche modo le pendenze processuali in corso e di collaborare in futuro coi musei americani mediante prestiti di opere d’arte significative, mostre congiunte, ricerca e progetti di conservazione e restauro.

In pratica è stato realizzato quanto si era detto con Bombace.

Quasi tutte le opere contese sono già rientrate in Italia ed una parte di essi è stata esposta al Palazzo del Quirinale dal 21 dicembre 2007 al 2 marzo 2008 nell’ambito della mostra denominata “Nostoi. Capolavori ritrovati”.
Nell’accordo, nessun cenno viene però fatto agli argenti ed agli acròliti

Marion True – ex direttrice del Dipartimento Antichità del Paul Getty Museum di Malibù, alla quale si è fatto cenno anche a proposito dello skipper francese – sotto processo a Roma, per questo e numerosi altri misfatti, unitamente a molte altre persone fra cui l’italiano Giacomo Medici.
Renzo Canavesi nel 2001 è stato condannato dal Tribunale di Enna a 2 anni di reclusione ed al pagamento di 40 miliardi di lire come risarcimento allo Stato italiano; ma ha opposto ricorso.
Orazio Di Simone e Robin Symes, sotto processo per traffici illeciti internazionali con un giro di diverse centinaia di milioni di dollari, forse miliardi.

E la nostra “Venere di Morgantina”?

È pure compresa nell’elenco sottoscritto nel 2007 e tutti dicono che dovrebbe rientrare in Italia entro il 2010, ma nel protocollo d’intesa prima citato – a meno che non siano intervenute modifiche successivamente – si legge testualmente:
5.1 Il Getty Trust trasferisce in proprietà alla Repubblica Italiana – Regione Sicilia la statua di culto acrolita di una dea, cosiddetta “Venere” o “Afrodite”, con testa, braccio destro e piede in marmo che il Ministero ritiene provenga dal sito archeologico di Morgantina (Sicilia, Italia) – (88.AA.76).
5.2 Il bene descritto al paragrafo 5.1 resterà presso il Getty Trust in prestito sino al 31 dicembre 2010 e sarà esposto con la legenda: “Lent by the Republic of Italy – Region of Sicily”.
Il che significa che non rientrerà in Italia “entro il 2010” ma dopo tale data.

Ma mi chiedo: dovremo dare ragione all’ex Direttore del Paul Getty Museum quando mi disse: “…Se non l’avessimo valorizzata noi, starebbe ora ad ingombrare qualche ammuffito sotterraneo dei vostri musei!”?