A Troina chiesa Santa Caterina incontro sul genocidio armeno e tragedia popolo curdo

In un importante convegno tenutosi a Roma nel 2015 per ricordare il genocidio armeno del 1915 uno di quelli che hanno svolto le relazioni citò dei brani dell’articolo scritto da Antonio Gramsci per il “Grido del popolo” dell’11 marzo 1916. In quell’ articolo del 1916 Gramsci parlava appunto del genocidio armeno. L’articolo iniziava con delle osservazioni che valgono anche per quello che sta accadendo oggi al popolo curdo. Osservazioni, quelle di Gramsci per il genocidio armeno di 100 anni fa, simili a quelle sul disinteresse per la tragedia che stanno vivendo i curdi in questi giorni che ho letto nell’articolo di Massimo Cacciari su “L’Espresso” di questa settimana. “Non è stupefacente che milioni di giovani scendano in piazza per la salute della madre Terra e neppure mezzo sciopero per quella delle madri curde, dei loro bambini, dei migranti annegati nel Mare nostro? Può esservi salute della Terra se quella parte della natura che è l’uomo soffre inenarrabilmente in metà del pianeta?”, si chiede Cacciari. Io, la risposta all’accorata ed angosciata domanda di Cacciari, la trovo in quello scritto giovanile di Gramsci. Diceva Gramsci che un fatto ci interessa, ci commuove diventa parte della nostra vita interiore se avviene vicino a noi, presso gente di cui abbiamo sentito parlare. Bella, e pertinente, quella citazione che Gramsci fa traendola dal “Père Goriot” di Balzac. Il grande romanziere francese fa domandare al giovane provinciale Eugene Rastignac alla conquista di Parigi, che cosa farebbe se sapesse che ogni qualvolta mangiava un’arancia doveva morire un cinese? Avrebbe smesso di mangiare l’arancia?  Rastignac si rispondeva che le arance lui le mangiava perché le conosceva, stavano vicino a lui mentre i cinesi erano così lontani e non era neppure certo che esistessero. Ai curdi di oggi sta succedendo la stessa cosa che successe agli armeni un secolo fa. Per quelli che non la pensano come Rastignac, e vogliono dimostrare interesse per quello che patirono gli armeni allora e per il dramma che stanno vivendo i curdi in questi giorni, è previsto l’appuntamento per domenica sera, 27 ottobre, alle ore 20.30, nella chiesetta di Santa Caterina. Se ne parlerà anche, e soprattutto, con le immagini del film “La masseria delle allodole” dei fratelli Taviani, tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan, scrittrice italiana di origini armene. Gli organizzatori dell’evento hanno compilato la sceda del film che trascrivo qui di seguito:

“Il film “La masseria delle allodole” dei fratelli Taviani è tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan, scrittrice italiana di origine armena, pubblicato nel 2004.

      Nel film i fratelli Taviani raccontano, attraverso le vicende di una famiglia, il secondo genocidio del popolo armeno da parte del partito dei Giovani Turchi nel 1915 durante la Prima Guerra Mondiale. Il primo genocidio c’era già stato nel 1894.

Nella Grande Turchia, che volevano costruire i Giovani Turchi, non doveva esserci posto per gli armeni, popolo di religione cristiana.

      In quegli anni viveva in una città turca la famiglia benestante degli Avakian. La scomparsa del più anziano degli Avakian, una sorta di patriarca, fu una grave perdita per la famiglia. Ai funerali partecipò anche il comandante della guarnigione turca, il colonnello Arkan in segno se non di amicizia almeno di reciproco rispetto tra le due comunità turca e armena. 

Ma per i Giovani Turchi alla guida dell’Impero Ottomano, che perseguivano il disegno di pulizia etnica, doveva esserci posto nella Grande Turchia solo per i turchi.
Non condividevano questa politica dei Giovani Turchi il colonnello Arkan e l’ufficiale Egon, che intanto aveva intrecciato una relazione con la bella armena Nunik, la nipote del patriarca.

      Da Costantinopoli, la capitale dell’Impero Ottomano, giunse nella cittadina dove vivevano gli Avakian un gruppo di militari turchi con l’ordine di uccidere gli uomini e i bambini della comunità armena e di deportare le donne e le bambine armene nella città di Aleppo dove sarebbero state trucidate.

      Assadur, il figlio maggiore, che da tempo viveva Padova, dopo aver appreso che la masseria delle allodole era stata lasciata a lui, decise di tornare e riunire la famiglia nella vecchia masseria ristrutturata all’occidentale.

Alla notizia del massacro voleva anticipare il ritorno per aiutare gli armeni. Ma dopo l’entrata in guerra dell’Italia non gli fu possibile.

      Il colonnello Arkan tentò di salvare almeno la famiglia Avakian, ma un gruppo di soldati disubbidì ai suoi ordini, si recò alla masseria delle allodole e uccise tutti gli uomini. Intanto Egon e Nunik tentavano la fuga, ma furono scoperti”.

Egon fu mandato al fronte a combattere contro i Russi e Nunik assieme alle altre donne armene fu condotta ad Aleppo attraverso il deserto e sotto la sorveglianza dei soldati turchi.

       Sotto le mura di Aleppo le donne subirono ogni sorta di maltrattamento e di violenze. Per procurare da mangiare ai bambini, Nunik tentò persino di prostituirsi ad un soldato turco, Youssuf, che in sussulto di solidarietà e dignità le diede cibo e vesti senza chiedere nulla in cambio.

I due strinsero un patto: in caso estremo, per evitarle inutili sofferenze della tortura, Youssuf avrebbe ucciso Nunik.

      Nunik tentò la fuga, ma venne scoperta e condannata al rogo. Per evitarle le atroci sofferenze del rogo, Youssuf uccise Nunik.

Finita la guerra, quattro anni dopo, Youssuf si autodenunciò di questo orrendo crimine in un processo.       

 

Silvano Privitera